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Otto marzo, sul corpo delle donne

Otto marzo, sul corpo delle donne

Una proposta e una storia americana, presi dalla stampa, per l'8 marzo

Martedi, 09/03/2010 - Otto marzo, e siamo ancora qui. Sul corpo delle donne.





Sono passati solo cinque giorni da quando, insieme a Silvia Nono, Serena Perrone e Adriana Valente, abbiamo deciso di far circolare tra le persone che conosciamo un appello ai candidati di sinistra delle prossime elezioni regionali perché inseriscano nel loro programma una dichiarazione: “Io non considero normale che le donne siano trattate come merce di scambio nelle relazioni personali e professionali, nella politica, nella comunicazione”.



...ci siamo mosse, perché – come abbiamo scritto nel preambolo – eravamo stanche di lamentarci tra noi, ogni volta che sentivamo ripetere che, suvvia, quello che ci succede intorno (per dirne una, le ragazze offerte in premio ai guerrieri più o meno stanchi) è, appunto, normale. “Furibonde pudibonde” ha del resto titolato spiritosamente il “Foglio”, per definire noi e la nostra iniziativa: come a dire che chi non si riconosce in questo mondo fatto di “veline” e di “letterine”, di strizzate d'occhio e di allusioni neanche troppo allusive, non può che essere una moralista bacchettona, una “signorina di buona famiglia” timorosa del sesso e della nostra allegra modernità.



Quello che non ci aspettavamo, e che ci ha regalato una notevole soddisfazione, è che, a quanto pare, sono in tante, e in tanti, a “non considerare normale” quanto sta succedendo nell'Italia di oggi. Nel giro di poche ore le firme in fondo al nostro appello erano così numerose, che siamo state felicemente costrette ad attivare uno spazio in rete (e da ieri un vero e proprio sito, www.nonconsideronormale.com) e un gruppo su Facebook che ha raccolto più di duemila aderenti...







(Maria Teresa Carbone sul Manifesto del 23/2/2010)







* * * * * *



Arrivata all'età di 40 anni, con un titolo di avvocato, un'ottima posizione al ministero della Difesa americana e un matrimonio decennale con un collega in un altro ministero, anche lui con un “posto sicuro”, D.J. Feldman (di lei conosciamo soltanto il cognome e le iniziali dei nomi) riuscì a realizzare il sogno che ancora mancava alla sua vita: diventare madre prima che il famigerato orologio biologico scoccasse la mezzanotte.



Lei e il marito non avevano certo risparmiato né soldi, né terapie, per arrivare a sentire la ginecologa pronunciare quelle tre parole magiche all'inizio dell'autunno: “Lei è incinta”.



Pianse per una notte intera, D.J., che ormai aveva quasi smesso di crederci, ma le sue lacrime di felicità sarebbero state appena qualche goccia di rugiada rispetto a quelle che dopo 11 settimane avrebbe dovuto versare. La stessa dottoressa che le aveva dato la notizia tanto sperata, fu colei che dovette dirle qualcosa che nessun ginecologo vorrebbe mai dire, una sentenza contenuta in una parola che la madre non aveva mai ascoltato prima, ma che la sua preparazione di giurista, e la sua ansia di madre, le resero subito comprensibile: “Anencefalia”. Senza la testa. La creatura che portava nel ventre si era sviluppata senza la parte più importante del cranio e del cervello.



Per questa rarissima condizione, che colpisce un feto su duecentomila e non ha ragioni né spiegazioni accettabili, non ci sono cure, interventi, speranze...Nessuna creatura, che non sia un virus o un'ameba, può sopravvivere senza il cervello.



D.J. Era naturalmente assicurata, come lo sono tutti i dipendenti pubblici negli Stati Uniti, e si dovette rassegnare a fare quello che ogni cellula del suo corpo avrebbe voluto non fare, abortire. L'ospedale della Virginia, al quale si rivolse per la tristissima procedura, la informò che l'aborto sarebbe costato 9 mila dollari e lei compì la formalità di chiedere l'autorizzazione alla compagnia di assicurazione.



No, le risposero, non paghiamo. Non per avarizia o cattiveria, ma per legge. Non possiamo pagare perché lei, gentile signora, è stipendiata con danaro pubblico, del governo federale, e una legge chiamata Stupak-Pitts, dal nome di un emendamento infilato da due parlamentari cosiddetti “pro-life”, contrari all'aborto volontario, vieta esplicitamente di usare fondi pubblici per interrompere gravidanze, tranne in caso di incesto, stupro o gravi rischi per la salute della madre.



Le condizioni del feto, anche se colpito da malformazioni terminali e irreversibili, come l' “anencefalia”, non contano. Quella povera creatura deve arrivare per legge al nono mese (se ci arriva), essere partorita, essere assistita con palliativi esclusivamente in ospedale – neppure pensare di portarla a casa – aspettando che se ne vada.



D.J. e il marito hanno pagato di tasca loro l'intervento, perché se 9 mila dollari non sono noccioline, per due avvocati con buona anzianità impiegati in un ministero non sono neppure una catastrofe finanziaria.



Naturalmente, se quella donna fosse stata la moglie di un soldato che guadagna 20 mila dollari l'anno lordi, o la custode che tiene in ordine lo sgabuzzino delle scope al ministero per molto meno, la storia sarebbe stata diversa, e quella donna avrebbe dovuto portare a termine la gestazione di un morto.



Ma, alle sentinelle dell'utero altrui, questo non interessa...





(Vittorio Zucconi su “D-La Repubblica delle Donne” di Repubblica del 19/12/2009)



(a cura di Mariletta Caiazza)

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