Un progetto culturale di SOCREM che intreccia cura, identità e trasformazione sociale
Il filo rosso della cura femminile
Nel cuore di questo percorso c’è una figura potentissima: l’Accabadora. Donna sarda, spesso anziana, silenziosa, invocata non per uccidere ma per compiere un gesto di pietà. Bonaria Urrai, la protagonista del celebre romanzo di Michela Murgia, incarna una funzione che va ben oltre il concetto (maschile, occidentale, medicalizzato) di “fine vita”. L’Accabadora è custode di un sapere profondo e collettivo, un sapere femminile e non codificato, legato alla cura dell’altro anche nel momento del distacco. Un sapere non scritto, ma tramandato — come avviene per molti ruoli storicamente affidati alle donne: levatrici, nutrici, guaritrice, mediatrici tra il visibile e l’invisibile.
In una cultura che per secoli ha affidato alle donne i compiti legati alla nascita e alla morte, la loro rimozione dai riti moderni della fine della vita è una perdita non solo simbolica ma sociale. Oggi la morte si consuma in silenzio, tra corsie ospedaliere e stanze isolate, e le donne — che continuano a svolgere la gran parte del lavoro di cura nella nostra società — sono spesso lasciate ai margini delle decisioni e dei riconoscimenti pubblici.
Dal villaggio alla rete: la morte si fa digitale
Il progetto di SOCREM esplora questo passaggio radicale: dalla morte condivisa nella comunità alla morte condivisa sui social. Come ha evidenziato Davide Sisto nel suo saggio La morte si fa social, oggi la morte non scompare, ma si trasforma in presenza digitale, in memoria algoritmica, in “cimitero online” dove il ricordo è gestito da piattaforme e interfacce.
Ma se la presenza femminile era centrale nei riti di passaggio della società tradizionale, quale ruolo possono avere le donne oggi, in un lutto sempre più pubblicizzato ma sempre meno collettivo? Quando il dolore diventa un post, e l’elaborazione un reel commemorativo, il rischio è che l’esperienza del lutto — così profondamente incarnata e relazionale — venga spettacolarizzata o banalizzata.
Eppure, anche qui, le donne trovano spazi. Spazi per raccontare, per ricordare, per resistere. Spazi per creare comunità digitali che, pur tra i limiti del mezzo, ritrovano pratiche antiche di solidarietà. Nei gruppi Facebook per chi ha perso un genitore, nei profili commemorativi curati con amore, nei podcast dove si parla apertamente di morte, malattia, trauma e rinascita.
Lavoro di lutto, lavoro culturale
Il progetto SOCREM non si limita a raccontare la trasformazione del lutto. Va oltre, proponendo una nuova visione culturale della morte: non come fine biologica, ma come momento profondamente umano e sociale. Un momento che richiede pensiero, linguaggio, cura, spazio — e anche politica.
In questo senso, l’iniziativa è profondamente femminista: perché restituisce voce alle donne nella narrazione della morte, perché rompe i tabù che circondano il dolore e il corpo, perché invita a pensare alla cremazione (pratica spesso considerata marginale) non come rimozione, ma come scelta consapevole e laica. Una scelta che, come quella dell’Accabadora, non si impone, ma accompagna.
Riconnettere: una sfida femminista
Da Soreni al villaggio globale, da Bonaria Urrai agli avatar commemorativi, il filo rosso che unisce tutto è il bisogno umano di connessione autentica. In un mondo dove “mostrare” la comunità ha spesso sostituito il “fare” comunità, il gesto dell’Accabadora — silenzioso, empatico, radicalmente non spettacolare — ci insegna un altro modo di essere insieme.
Forse è proprio da lì che dobbiamo ripartire: dalla memoria, dalla lentezza, dalla responsabilità. E dal riconoscimento che la morte, come la vita, è un fatto collettivo, e quindi profondamente politico.
Conclusione: pensiero che genera cura
SOCREM, con questo progetto, non solo riapre un discorso sulla morte, ma ci invita a rimettere in circolo immagini, ruoli, saperi e gesti che le culture dominanti hanno spesso marginalizzato. In particolare, ci invita a riconoscere il valore del pensiero femminile nella costruzione della memoria collettiva, nei riti di passaggio, nei gesti che tengono insieme cura e libertà.
E allora sì, come diceva Giordano Bruno: non è la materia che genera il pensiero, ma il pensiero che genera la materia. E forse, aggiungeremmo oggi, è il pensiero delle donne che può generare nuove visioni della materia, del lutto e della comunità.
Marianna Semeraro
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