Essere madri e caregiver familiari ai tempi del Coronavirus, cronaca di un isolamento
Domenica, 22/03/2020 - Mi è stato chiesto cosa significhi essere una mamma caregiver familiare di due giovani donne con autismo al tempo del Coronavirus. È una follia!
paura, non voglio perdere il controllo, e adesso non ci si può neanche muovere liberamente, consumare calorie, ma le prometto che l’indomani comperiamo la maionese e devo ripeterglielo all’infinito, non si fida, eppure sono una che fa quello che dice, quando dorme, se dormirà, tirerò fuori la maionese dal nascondiglio, toglie i bastoncini di pesce dal congelatore, li metto nella teglia nel piano frigo, domani bastoncini&maionese, quella blu, sembra essere importante che la confezione sia blu, accende il computer, mette il video dell’attrazione di un parco a tema, Indiana Jones e il Tempio Maledetto, accidenti a quando l’ho portata a Disneyland Paris, è pure un posto caro arrabbiato, come arrabbiata è Arianna, Arianna che sta cercando di riprogrammare le sue giornate ora deprogrammate dallo stramaledetto Coronavirus. Giù e su, su e giù per le scale. Alle 11:30 saliamo in soffitta, fortunatamente, non scopre il nascondiglio del cibo non deperibile, cerco di calmare la sua agitazione insostenibile, anche perdendo la pazienza e con essa le forze e i buoni propositi, menomale che il mio cuore regge, penso che forse fare le scale fa bene al cuore, con tutto questo stress, il solito bicchiere mezzo pieno, mi sento sola, eppure non soffro di solitudine. Siamo tutti soli nelle circostanze estreme della vita, estreme come quelle di questa pandemia senza cura e in certi casi mortale. Estreme come quelle della disabilità mentale dei nostri figli, delle mie figlie. Ho capito perché io mi senta improvvisamente più sola, perché adesso, siamo anche isolate. L'isolamento pesa. Nonostante il rifiuto del mondo, ho sempre accuratamente evitato l'isolamento e curato la mia solitudine. Negli ultimi trentaquattro anni ho visto la gente sparire: si viene abbandonati, come per una selezione naturale e, a volersi attenere ai numeri, pare che anche il Coronavirus ragioni così: elimina i più deboli. Bastardo: l’invisibile figlio del male dalla forma d’un fiore, i cui petali sono ventose rosse, il fiore del male che ci sta strappando agli affetti più cari dopo averci gettato in una solitudine di disperazione! Come non proteggermi, come non proteggere Chiara e Arianna? I telegiornali e le conferenze stampa della Protezione Civile, che ogni giorno tutti aspettiamo davanti al televisore alle 18:00, sono bollettini di guerra, e in tempo di guerra si salvi chi può! Le mie figlie ed io ci salveremo dal contagio? Lo spero. Se il Coronavirus ci contagiasse, non so come potrei gestire la mia situazione familiare. Tutto questo è una follia: se ci separassero impazzirei, almeno credo, perché nelle situazioni ci si deve trovare per conoscersi, e anche questo io lo so bene. E anche quest’ultima è una folle paura, quella di conoscermi in una situazione di guerra contro un virus, che ne so, magari in un ospedale da campo, dicono che non ci sono abbastanza respiratori, che potrebbero esser messi nelle condizioni di scegliere chi rianimare, o forse già lo sono, e no, io non voglio conoscere la me che affronta pure questo. Ho visto abbastanza. Non voglio rischiare nulla. C’è sempre tempo per morire. Voglio aspettare ancora per conoscere quella me. Ce la farò? Mica lo so! E subito, per riuscire a farcela, perché una come me deve farcela, io comincio a immaginarmi in una vita le cui restrizioni diventino più stringenti di quanto lo siano state fino ad oggi. Mia madre mi chiama Mandrake. Non so chi sia Mandrake, l’ho sentito nominare però. Dice: “Ma chi sei Mandrake?” Deve essere uno fortissimo, uno con i superpoteri. Immagino di essere Mandrake, quella fortissima con i superpoteri. Arianna adesso sembra cominciare a raccapezzarsi in questa nuova situazione, abbiamo una cineteca di film di animazione, abbiamo colori, abbiamo musica, abbiamo libri, abbiamo un giardinetto, abbiamo una veranda, abbiamo una piccola terrazza panoramica, il sole sorge nel soggiorno e tramonta in cucina, Arianna si sta riorganizzando le giornate ora disorganizzate e in certo senso le organizza anche a noi. A me sta bene e anche a Chiara, basta che stia tranquilla, a me basta che non picchi sua sorella: vorrebbe picchiare me, ma non ha mai superato IL LIMITE, e allora mena Chiara, forse sa che così mi farà altrettanto male, e me lo fa. I figli se la prendono sempre con le madri, ma sono anche gelosi di loro. Chiara sopporta, si lascia menare, io vorrei che reagisse, le ho chiesto perché non lo faccia, dice che quando Arianna era piccola lei la picchiava di nascosto. Ci sarebbe da impazzire: è una follia. Il pomeriggio facciamo un po’ di ginnastica e alla fine recitiamo l’OM. Alle ragazze piace molto intonare l’OM, e anche a me: OM, la sacra sillaba. In realtà, a una come me questa sacrosanta distanza sociale imposta a tutti non impressiona più di tanto: con le mie figlie, da sempre cerchiamo luoghi poco affollati e se vediamo qualcuno deviamo. Strada facendo ci siamo distanziate, prendendo sempre più le distanze da un mondo dal quale siamo stufe d’esser fissate per poi essere ignorate, noi camminiamo a dieci metri di distanza, noi viviamo la distanza e le sue conseguenze, ci hanno abituato così, ci hanno scaricato, ma noi tre abbiamo bisogno di aria, di spazi aperti per muoverci il più liberamente e agevolmente possibile in un mondo in cui la collettività si è organizzata per vivere e si comporta con scarsa considerazione delle differenze individuali, figuriamoci della disabilità di cui ancora pare meravigliarsi per poi disinteressarsi, e siamo ancora al tempo in cui anche le eccezioni confermano la regola. Dei disabili importa poco o niente ai più: i socialmente inutili! Nessuna polemica, le cose stanno così: integrazione, accessibilità, figuriamoci l’inclusione, in barba alla convenzione ONU, sono parole più che realtà, e sempre le eccezioni confermano la regola. Martedì scorso, già prima che i Centri Diurni venissero chiusi con un decreto, sebbene con non poca resistenza, per la paura di sapere già a cosa stavo andando incontro cosi facendo, decisi, come molti tra noi genitori caregiver ancora in grado di farlo, di stare a casa con le mie ragazze: di isolarci dal mondo. Impossibile nei Centri Diurni rispettare la distanza. Ce la farò? Mica lo so! L’ultima follia con cui rispondo, quindi, alla domanda su cosa significhi in concreto essere caregiver familiare di due ai tempi del Coronavirus di persone con disabilità gravissima è coraggio: quel genere di follia del cuore che fa sopportare il peso di una tale responsabilità, la paura della sofferenza che verrà nel portare avanti da sola questa situazione in isolamento forzato, ma anche autoimposto: il solito coraggio. Non a caso ci chiamano madri coraggio e coniamo oggi il termine caregiver coraggio. Siamo in tante e in tanti in queste condizioni, lamentarmi sarebbe banale. Ce la farò? Mica lo so! È un salto nel buio, come tutte le folli ragioni del cuore. Ma no, no e no! Io non voglio che Chiara e Arianna prendano il Coronavirus, e non posso prenderlo io. Chi si occuperebbe di loro ai tempi del Coronavirus? Mia figlia maggiore Chiara, la quale in passato è stata anche lei malissimo, ma adesso, dopo tanta riabilitazione, è più saggia di tanti tra noi, oddio quanto è cara, dice di sua sorella: “Arianna leva la pelle!” È simpatica Chiara. E, poi, sollecitata a esprimere cosa le passi per la testa in questo momento di isolamento, anche in relazione al Coronavirus, scrive velocemente tutto d’un fiato, il punto solo alla fine e rigorosamente in stampatello, con evidente riferimento al suo bisogno compulsivo di mangiare:
Lascia un Commento