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Quando si dice

Quando si dice "NOI"

Politiche di inclusione ed esclusione dell'Udi a partire dall'XI Congresso

Giovedi, 07/04/2011 - Nella sede nazionale dell’Udi campeggiano due grandi fotografie degli anni ’70. Una che ritrae un corteo di donne e l’altra il palazzo dei Congressi dell’Eur, gremito all’inverosimile, in occasione del X Congresso dell’Udi, dove la delegazione calabrese cui appartenevo, allora ventenne, sedeva numerosa e pimpante in prima fila.

Non è più tempo di nostalgie, soprattutto ora che le piazze tornano a essere riempite da migliaia di donne, ma forse il momento giusto per rileggere quelle immagini alla luce del presente.

Nella prima foto emergeva l’adesione convinta dell’Udi alle grandi battaglie del femminismo, dopo un lungo e accidentato confronto con la sua diversità, nell’altra foto, del ’78, l’inclusione di tantissime giovani donne che, non provenendo da partiti, accettavano con qualche perplessità il loro inquadramento nei vari organigrammi territoriali, così come la tessera e la delega al voto.

Quattro anni separano quell’evento dal Congresso successivo in cui l’Udi stabilisce di progettare una nuova forma politica, sciogliendo il suo apparato e le sue procedure rituali. Da allora una progressiva diaspora l’ha contrassegnata, privandola sia dei soggetti nuovi che avevano animato quel X Congresso sia di quelli storicamente riconoscibili, in gran parte visivamente rappresentati dalla lunghissima tavola della Presidenza e dalla pluralità di nomi più o meno noti e comunque autorevoli che avevano guidato i gruppi di discussione. Quanto successo dopo ce lo ricorda Anita Pasquali nel suo articolo comparso su “Noi donne” a ottobre. 'Leader’ e gruppi dirigenti non esistevano, non avevano i passaggi del consenso e delle forme diverse dell’agire democratico. Nei fatti c’era un gruppo dirigente ‘occulto’ che in realtà ‘custodiva’ l’intoccabilità delle scelte dell’82.

Comunque sparirono i diritti, i pensieri e le esperienze di oltre 100mila iscritte e soprattutto sparirono le occasioni proprie delle assemblee, dell’analisi della realtà civile, sociale e culturale delle donne e la ricerca delle strade dell’agire politico per modificarla. Cosa che solo un’organizzazione politica può fare.

Nel frattempo, nelle realtà territoriali, l’autonomia preannunciata iniziava a configurarsi come autosufficienza di gruppi più o meno grandi che utilizzavano talora il nome dell’Udi per attribuire ad iniziative locali, autoreferenziali e circoscritte la legittimazione ed il prestigio di un “brand” nazionale.

Il risultato di questo processo è stato” l’occultamento” di cui sopra del gruppo dirigente di fatto, il disconoscimento di quello nominale e la cancellazione, quando non la delegittimazione reciproca, tra questo e le realtà territoriali.

Il XIV Congresso del 2003, al cui statuto ho contribuito a redigere, ha scommesso su una ristrutturazione della forma politica dell’Udi che facesse di istanze comuni e condivise, di un organismo collegiale e riconoscibile come il coordinamento nazionale e di una rappresentatività più incisiva della sua sede centrale, lo strumento per ricostituire il tessuto connettivo delle sue molteplici espressioni locali.

Ma il progressivo svuotamento delle prerogative del coordinamento ed una concezione nel contempo movimentista dell’organizzazione e dirigista del suo governo ha trasformato la rappresentanza nazionale in una funzione “centralizzata" di controllo e filtro e le realtà locali dell’Udi in diramazioni “periferiche”, coinvolte nell’esecuzione operativa delle campagne del momento, ma dispensate dalla partecipazione alla loro progettazione e dalla valutazione dei loro esiti reali.

Un superfunzionariato centrale in rapporto più o meno tranquillo con le periferie non è la stessa cosa di una dimensione nazionale che sia nello stesso tempo espressione, valorizzazione e sintesi delle sue realtà territoriali, con le quali interagisce nella condivisione delle procedure democratiche fin dalla costruzione delle decisioni comuni. Se questo non avviene, si rischia una crisi di rappresentanza e di prospettiva politica simile a quella che ha portato alla risoluzione del 1982, senza peraltro quell’assunzione di intraprendenza e responsabilità personale che quel congresso auspicava.

La riprova più recente è stata in occasione della manifestazione femminile del 13 febbraio scorso, “Se non ora, quando?” che ha visto una presa di distanza ufficiale, annunciata sui giornali, e immediatamente smentita da diverse Udi locali, evidentemente non adeguatamente interpellate su tale decisione, ma intenzionate a parteciparvi in modo autonomo e non solo a titolo personale.

Proprio il fatto che l’Udi abbia sollevato da anni, in più occasioni e con largo anticipo, la questione del corpo femminile come posta in gioco del potere, a livello non solo nazionale ma globale, avrebbe dovuto farle rivendicare con fierezza e sollievo la propria compatibilità con i contenuti essenziali del nuovo movimento femminile che si sta profilando. Ma distinguo, rivendicazioni e riserve mentali l’hanno resa un’accigliata associazione che non si mescola in alleanze eterogenee a meno che non vi occupi un posto d’onore.

Ma, prima ancora, risulta incomprensibile la tendenza a proclamare l’Udi associazione né di destra né di sinistra proprio oggi, in un momento cioè in cui è la neutralità ad essere di parte ed è l’antipolitica a governare, ed essere di sinistra - anche agli occhi di chi non lo è - è sinonimo di difesa della legalità e della democrazia costituzionale.

Come mai tanta spregiudicata “imparzialità”? Forse per garantire ieri come oggi la permanenza di un gruppo dirigente garante dell’autonomia, del marchio e della denominazione d’origine dell’Udi, anche a costo di snaturarla rispetto alle sue premesse storiche? O forse, non essendo più da tempo, e giustamente, associazione para-partitica, per conservarle una qualche possibilità di negoziazione col sistema politico, accreditandola come organizzazione para-istituzionale?

Il nodo, ieri come oggi, a mio avviso non sta tanto nella forma organizzativa dell’Udi ma nel suo rapporto col “nuovo” e l’inedito che viene dalle donne, più o meno giovani, che vi accedono adesso e su come interagiscono con la fisionomia reale dei suoi decennali rapporti interni; e, contemporaneamente, viene dalla rivitalizzazione dello spazio pubblico da parte di migliaia di donne di diversa provenienza, fisionomia, linguaggio politico e liberamente aggregate a partire da slogan “elementari”, ma non per questo semplicistici, rispetto alle quali un’associazione come l’Udi, che ha scelto ultimamente parole d’ordine non certo problematiche per le sue campagne, deve porsi in modo più attento ed aperto.

Il rischio, altrimenti, è, infatti, quello di fare, su questo terreno, un errore opposto a quello dell’XI Congresso: allora si trattava di affermare la propria autonomia dai partiti contaminandosi col femminismo fino alle sue forme aggregative e scommettendo sulla sua forza simbolica capace di monopolizzare l’intero spazio pubblico femminile che peraltro già registrava il rifluire delle donne in una pluralità di aggregazioni, impegnate in una molteplicità di progetti e riflessioni, col rischio reale di una frammentazione di percorsi e d’intenti.

Oggi si tende invece a identificare l’autonomia dell’associazione in una sorta di geloso “splendido isolamento” all’interno dell’universo politico femminile, ovvero nella sua dissociazione a priori da altre sigle femminili, peraltro spesso portatrici di istanze simili.

Negli anni ’70, inoltre, non sono state considerate a sufficienza la novità e la potenzialità espresse da quelle tante giovani donne approdate, in controtendenza, nell’Udi proprio attraverso quel femminismo con cui essa si voleva misurare e giudicate probabilmente delle ingenue, in quanto principianti di una politica strutturata di cui la maggior parte delle dirigenti era stufa.

Oggi pare che delle nuove donne, più o meno giovani, che pure si è state capaci ultimamente di aggregare, si presupponga di nuovo l’ingenuità, non più di principianti, ma di estranee alla politica e alle sue pratiche, incoraggiandone l’approccio emotivo ed esonerandole da un impegno più metodico e costruttivo.

E questo a scapito, mi sembra, di quante di loro, attratte dalle aperture dell’ultimo congresso, si sono accostate volendo farsi portatrici di esperienze, competenze e istanze di confronto col nuovo espresso dall’intera scena politica.

La potenzialità dell’Udi sta invece, ieri come oggi, nel suo radicamento sul territorio nazionale e nella permanenza di sedi e gruppi che garantiscono la stabilità e la riconoscibilità della sua azione politica. E questa ha modo di sedimentarsi anche grazie alla documentazione prodotta nel tempo, con cui costruire criticamente una memoria comune e confrontarsi anche con l’interpretazione e le soluzioni che altre donne danno circa la situazione attuale.

Il presente, così come oggi è rappresentato dal vissuto e dallo sguardo di tante donne “reali”, dovrebbe rinfrancarci e non suscitare così tanta diffidenza. Come si è visto il 13 febbraio, non tutto è stato dimenticato o superato, anche perché tenuto in vita dall’azione e dall’impegno di centinaia di donne tenaci, aggregate o meno, che in tutti questi anni hanno concimato il terreno che ha fatto germogliare spontaneamente una protesta così vigorosa, dando voce a una consapevolezza evidentemente mai spenta.



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