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Rebibbia femminile. Riflessioni sulla violenza contro le donne di alcune detenute

Rebibbia femminile. Riflessioni sulla violenza contro le donne di alcune detenute

‘A mano libera’, laboratorio con le detenute di Rebibbia: riprendono gli incontri e si parla di violenza contro le donne

Giovedi, 24/11/2016 -
Rebibbia, Roma, 22 novembre 2016. La terza edizione del laboratorio ‘A mano libera’ che teniamo settimanalmente - NOIDONNE e NoidonneTrePuntoZero - nel carcere femminile romano di Rebibbia è iniziata da due settimane. Con le numerose partecipanti, tra le quali molte sono nuove iscritte, le conversazioni intorno ai temi di attualità si avviano vivacemente.

La scadenza del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è spunto per riflettere sulle ragioni che sono alla base di questa triste realtà che non segna significative flessioni.

Nei discorsi intorno al tavole nella biblioteca dove ci riuniamo, l’esperienza personale si intreccia con le considerazioni di carattere più generale. Lo sconforto per una realtà che sembra immutabile è quanto affiora dalle parole di Laura, che dice “non è cambiato niente, gli uomini continuano ad uccidere e le donne a morire e i centri antiviolenza vanno a rilento”. D’altro canto, riflette Sonia, “a uccidere le donne sono anche l’indifferenza della società e la stessa legge perché le donne vivono la violenza in solitudine”. Su questo piano interviene anche Annamaria, che osserva: “io sono carcerata e non ho fatto quasi niente e invece ci sono tanti uomini violenti e che non stanno in carcere”. Difficile non darle ragione, anche sulla base della realtà che ci racconta di troppi femminicidi annunciati e che si potevano evitare. L’intervento punitivo da parte della legge arriva quasi sempre tardivamente. “Non c'è prevenzione - osserva Olga - e se una donna denuncia la violenza che subisce non viene presa in considerazione. In Russia mi rispondevano che sarebbero arrivati quando morivo”. La difficoltà ad avere ascolto e giustizia come donna la spiega la drammatica storia di Regina: “Mio marito mi menava e io ho chiamato il 118 ma non sono stata creduta perché tra le forze dell’ordine c’erano suoi colleghi, mi accusavano di essere ubriaca. Lui è uscito di prigione. La legge non ha avuto cura neppure dei bambini e il Tribunale dei minori li ha messi in istituto” . Per Vera le donne che subiscono violenza portano i segni di “ferite che restano aperte per tutta la vita”, anche perché spesso sono condizioni che si vivono per lungo tempo.”Mio marito mi menava perché era ubriaco, ma non va bene neppure quando i figli menano ai genitori e neppure quando i genitori menano figli”, osserva Micuda testimoniando le violenze agite in particolari situazioni di degrado. Sappiamo bene che la violenza contro le donne non conosce limiti geografici o di classe sociale e su questo punto interviene Ausonia, dicendo la sua opinione: “è compito delle famiglie insegnare il rispetto dell'altro sesso”. Anche la scuola e l’intera società, aggiungiamo noi, hanno il dovere di farsi carico di questo problema continuando a lavorare sul piano della prevenzione e della repressione, ma anche nell’accoglienza delle donne che decidono di denunciare e di uscire dal loro incubo quotidiano.



 

A cura di Tiziana Bartolini e Paola Ortensi

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