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Scongiurata l’abolizione della normativa antidiscriminatoria di genere, contenuta in un decreto attu

Scongiurata l’abolizione della normativa antidiscriminatoria di genere, contenuta in un decreto attu

Riconosciuto l'errore materiale da parte del Ministero del Lavoro, la lezione derivante da tale vicenda è che nella difesa dei propri diritti acquisiti le donne devono sempre vigilare.

Venerdi, 27/02/2015 -
La scorsa settimana sono stati approvati dal Consiglio dei ministri i decreti attuativi del Jobs act, aventi ad oggetto, da una parte, il rinnovamento della legislazione sui contratti e sui licenziamenti e, dall’altra, gli interventi sul welfare, tra assegni di disoccupazione, maternità e nuove prestazioni in sussidio. Su di un punto specifico del decreto relativo al contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti si è accentrata l’attenzione della Consigliera di Parità della regione Lazio, Alida Castelli, ossia sull’abrogazione della specifica normativa riguardante il diritto di accedere al lavoro senza alcuna “discriminazione fondata sul sesso”. Difatti nell’art. 46, comma 1 lett. c), di tale provvedimento era inscritta l’abrogazione dell’ “articolo 3, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 151 del 2001”, articolo intitolato “Divieto di discriminazioni”ed esplicativo delle singole ipotesi in cui esse devono essere vietate. Agli occhi della rappresentante istituzionale è, quindi, risultato evidente che siffatta eliminazione si configurasse quale un cammino a ritroso fino ad arrivare al tempo in cui lo stato di gravidanza, oppure la circostanza di avere espresso in un colloquio di lavoro la volontà di avere figli, comportava, ad esempio, per l’imprenditore la facoltà di non assumere la donna in questione.



Indubbiamente queste norme antidiscriminatorie nel corso degli anni sono state scalfite duramente da comportamenti consentiti dalla legge, come ad esempio per la prassi delle dimissioni in bianco, cioè la correlata lettera non datata che all’atto dell’assunzione veniva fatta firmare alla lavoratrice e che veniva manifestata, con tanto di riferimento temporale postdatato, allorchè la donna esplicitava, ad esempio, il proprio stato di gravidanza. Altra circostanza è, però, prevedere in maniera esplicita ed evidente l’abrogazione delle norme a tutela del genere femminile, così come è successo nel decreto attuativo del Jobs act. Un passo indietro nel tempo dei diritti negati stava indubbiamente a significare che l’impegno messo in campo dalle donne per l’affermazione delle necessarie tutele potesse improvvisamente essere denegato da un semplice click al momento di votare la ratifica parlamentare del suindicato decreto, peraltro puramente formale. Un riconoscimento va, conseguentemente, a chi si è accorta di questa palese svista, per usare un eufemismo, consentendo che si aprisse un serio fronte di contestazione culminato in articoli, prese di posizione, critiche, interventi e pressioni sul Governo al fine di cancellare il primo comma, lett. c), dell’art. 46. Al punto che prima il Ministero del Lavoro e poi la sua Sottosegretaria, Teresa Bellanova, si sono sentiti in dovere di comunicare che si è “provveduto a correggere quello che è stato, evidentemente, un mero errore materiale contenuto all'art. 46 dello schema di decreto legislativo che disciplina le tipologie contrattuali. Non c'è dunque nessuna abrogazione dell'art. 3 del dlgs 151 del 2001 sul divieto di discriminazione per sesso nelle assunzioni, che resta pienamente in vigore”.



Appare chiaro come in questa vicenda non ci si possa limitare a dire “tutto è bene, quel che finisce bene”, perché una domanda sale su impellente, ossia chi ha inserito la norma contestata, anche solo per commettere uno sbaglio, ad essere chiaramente clementi nella valutazione del caso. Il riferimento ad un “errore materiale” presuppone che si accerti chi ne abbia la paternità, per arrivare a comprendere di chi sia la ”manina”, che in maniera così puntuale ha fatto scrivere che veniva abrogato “articolo 3, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 151 del 2001”. Un errore materiale dovrebbe essere circoscritto nei riferimenti letterali e numerici e non arrivare ad essere così preciso da concretizzare un esplicito riferimento alla normativa antidiscriminatoria, pena configurarsi esso stesso quale uno sbaglio. E’ evidente come in siffatta circostanza entri in gioco l’etica della responsabilità, insieme alla salvaguardia del rispetto e della dignità di coloro alle quali è rivolta il dlgs 151/2001. Chissà se occhi più attenti ma, soprattutto, menti più vigili avrebbero potuto evitare preliminarmente tale svista, fatto sta che in sede di dibattito parlamentare non si è potuto evidenziarla, attesa la natura della delega attribuita al Governo sul Jobs act. Risulta più che indubitabile come avere dato carta bianca all’esecutivo, nella fissazione dei criteri a cui improntare i correlati decreti attuativi, comportasse di per sé il rischio di non potere controllare i suoi eventuali sbagli, ad essere benevoli. In una materia così particolare occorreva invece contrapporre ad un Governo presumibilmente disattento un Parlamento costantemente vigile, a tutela ed in nome di chi quegli sbagli non avrebbe dovuto subire.



Un plauso speciale va a chi questa particolare attenzione mette in campo nello svolgimento delle mansioni correlate al suo ruolo istituzionale, quale ad esempio ad Alida Castelli, nonché in seconda istanza a chi ha fatto da cassa di risonanza ai rilievi sollevati sul tema dell’abrogazione della normativa antidiscriminatoria. Il rischio corso con questo grossolano “errore materiale” non è da sottovalutare perché, come evidenziato dalla suindicata Consigliera di Parità, c’è ancora da mettere nel conto della realtà odierna “quante siano le ragazze e le donne che in un colloquio di lavoro si sentono chiedere se vogliono fare figli, se magari sono già in stato di gravidanza, per poi non assumerle”. Cosicchè alla palese soddisfazione del premier Renzi nell’annunciare la futura cancellazione delle forme contrattuali precarie si sarebbe accompagnata la certezza, comprovabile nel presente, di avere eliminato alcuni diritti acquisiti dalle donne negli anni passati. Rottamando, nel contempo, le stesse donne che a quelle prerogative si erano affidate per difendere la loro dignità di lavoratrici da ogni abuso conseguente alla propria condizione di genere.

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