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Terre d'Istria,Fiume,Dalmazia

Terre d'Istria,Fiume,Dalmazia

I destini di donne che rimangono e di donne che se ne vanno

Domenica, 10/02/2013 - Una storia ancora da raccontare, quella di chi è rimasto in terre d’Istria, di Fiume, della Dalmazia e quella di chi è partito. Terre di incontri e di scontri, di matrimoni dove tutto si è mescolato. In pochi restano, in tanti decidono di andarsene. Nell’immaginario sono i profughi, gli sfollati, gli esuli.

Sotto a chi tocca! Si dà sfogo alle vendette all’insegna di alterne bandiere. C’è bisogno di un colpevole, di un capro espiatorio di volta in volta diverso. Bisogna applicare la doverosa legge non scritta “occhio per occhio, dente per dente”. Complesse vicende, non solo quelle dopo il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947, ma anche amarezza, rancore, ingiustizia caratterizzarono e continuano a minare questi territori, prima austriaci, poi italiani, in seguito jugoslavi e ora croati. Decisioni prese a tavolino dai potenti determinano la sorte, il destino di sofferenza di intere comunità. Italiani, gli “indesiderati”, gli “occupanti”. Tutti, senza distinzioni. Pressioni combinate, violenze, occultamenti rivolti altresì a sollecitare l’allontanamento degli italiani. Anche di quelli sovraccarichi di responsabilità di fatti mai commessi. Se ne vanno commercianti, contadini, insegnanti e impiegati che avevano dovuto chiedere la tessera per poter lavorare alle dipendenze di uffici durante il periodo fascista, senza mai aver aderito al fascismo. Italiani! Punto! Nient’altro!

Ma c’è chi ha deciso di restare. Come Nelida Milani, polesana classe 1939. Scrittrice bilingue italiano-croato, tra i pochi italiani nativi ad essere pubblicata anche in Italia, fa parte della minoranza linguistica italiana in Croazia. Difende la sua terra a partire dalla conservazione della lingua italiana, mettendo in essere una sorta di sofferta resilienza.

Nei suoi due racconti di memoria scritti in lingua italiana, confluiti nel libro “Una valigia di cartone” (Sellerio,1992), coglie lo sradicamento di chi è rimasto nella propria terra :- “ mi a casa parlo crovato, a scola talian e in strada talian e crovato. Cossa son mi, talian o crovato?”. Espressioni ingenue e profonde di uno scolaro rivolte alla sua maestra, ma cariche di struggente verità restituiscono lo smarrimento di chi si sente senza radici. La difficoltà, per chi è rimasto, a leggere nomi di strade e di luoghi in una lingua che non gli appartiene, a rivendicare la propria italianità ferita mantenuta viva dalla musicalità della parlata istrio-veneta, di chi è minoranza linguistica e culturale. La lingua italiana costretta a sopravvivere a stento nei nomi e nei cognomi. Nelida Milani riesce a mantenere il suo cognome italiano, mentre i fratelli, iscritti dopo di lei alla scuola croata, si sono visti correggere il cognome in Milanovich e forse, come è successo ad altri, insieme negata anche la propria identità. -“Eravamo già Milanovich sotto l’Austria, poi con l’avvento del fascismo e la politica di italianizzazione forzata hanno resentato il cognome che è diventato Milani, ma ora veniva resentato di nuovo”. E nei suoi scritti sembra di sentire la voce di questa parlata istrio-veneta, che sopravvive a Monghebo, Pola, Visignano, Montona, Castellier, Parenzo … arrancando tra lo scirocco e la bora.



Gemma, profuga istriana

Gemma Bernes, classe 1937, appartiene alla comunità di chi se ne è andato. Ancora una volta, la lingua è difesa, ma in modo inconsapevole. -“Sono andata in una scuola italiana a Santa Domenica Visinada, verso Castellier vicino a Parenzo. Sono nata lì. E anche le maestre erano italiane. Non volevo andare alla scuola slava. Mio papà conosceva lo slavo, ma io non lo volevo imparare, non lo so nemmeno io perché”.

Ora Gemma vive nel bresciano. Nei brandelli di memoria del suo passato, del suo personale viaggio a ritroso della memoria e dentro la memoria, si sentono pulsare le ferite del destino di un’intera umanità in balìa degli eventi, sradicata dalla propria terra e costretta ad inseguire l’ignoto e sconosciuto miraggio, forse l’utopia di una vita “altra”. Gemma rappresenta l’emblema degli esuli sparpagliati in giro per il mondo a ritagliarsi uno scampolo di qualche nuova patria che li ospiti. E magari, accolti a fatica.

Non si sente più di appartenere a quella comunità dove in pochi sono rimasti e, tra questi, molti forse sono già morti. - “Il mio cason con tre ettari di bosco è abbandonato. Se non mi faccio viva entro sei mesi non sarà più mio. Perché dopo sessanta anni che non ti fai viva, non si è più padroni”. Non so se ritornerò. Non ci sono più ritornata”. Ferite ancora pulsanti che non si vogliono cicatrizzare. Bisognava andarsene. -“Ci aveva promesso dei soldi lo zio Davìde, servivano a mio papà perché anche lui voleva lasciare l’Istria, andare prima in Italia e poi in Argentina, con tutti noi, a Buenos Aires. Ma quello zio non si è più visto né sentito. E io andavo vicino al mare a respirare il suo profumo e vedevo le navi e sognavo l’Argentina”.

La scissione-frattura con la propria terra la percepisce fin dal momento della partenza. -“Io rimanevo in silenzio seduta dietro sul carro, con un groppo alla gola. Mi voltavo indietro per vedere ancora una volta la casa e forse la nonna che mi stringeva ogni notte nel letto e ci facevano compagnia. E guardavo la strada, i sassi, i campi, il cielo e pensavo che lì non ci sarei più tornata. Dovevamo andarcene. E basta.”

-“Arriva il carro che ci porta al campo smistamento di Udine. Faceva caldo. Il giorno della partenza la scalinata della nostra casa era piena di gente. Ci salutavano e piangevano. Invece mia nonna no, lei non partiva. E’ rimasta nel suo letto con il fazzoletto bagnato in mano. E non si voleva più alzare. Sul carro abbiamo caricato i bauli, la cassapanca bella della nonna, in stile veneziano, valigie di cartone con i vestiti e i prosciutti e la mia mamma li ha regalati a fettine a tutti quelli del campo”. Le peregrinazioni continuano per l’Aquila, sopra il monte e infine l’ approdo al campo profughi di Chiari, nel bresciano. -“Era il maggio del’54. In Piazza della Rocca a Chiari, ci siamo presentati al direttore della ex caserma “Eugenio di Savoia” al “77 Fanteria”, via Lupi di Toscana. Non avevamo niente. Bisognosi di tutto. A noi è andata bene. Gente brava, capiva. Ma il nostro pensiero era la nonna, la nostra bella casa grande e il cason con il bue e le capre e il mare e le sue erbe. Chi poteva lavorare più la terra di mio padre?”.

Come sepolti sotto la sabbia delle colline istriane, involontaria torna la memoria. -“ Sopra gli anelli della stufa di ghisa che ci riscaldava, si metteva una piccola pentola per cuocere le pietanze. Ogni volta, ad ogni boccone mi sembrava di riconoscere il gusto acido dei capuzi garbi, della cicoria col lardo e delle palacinche, il sapore delle pietanze della mia nonna”.

Gemma ha vinto lo sradicamento. -“Io sono straniera per voi, ma italiana per me”. Nella comunità che l’ha accolta ha ritrovato non la sua terra, ma un uguale sentire nel quale si è potuta riconoscere. Non senza fatica. La Grande Storia, ancora una volta, si fa Vera Storia quando riesce a vivere nelle vicende umane e nei destini anche di sofferenza che altri hanno scelto per noi. Oggi, la testimonianza di Gemma vivifica quel passato, che scalcia da sotto la sabbia della terra istriana. Vuole essere dissepolto e portato in superficie, perché possa essere conosciuto.

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