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Violenza di genere: ciò che non si vede, ciò che resta per ricominciare

Violenza di genere: ciò che non si vede, ciò che resta per ricominciare

La violenza contro le donne non lascia segni solo sul corpo: incide sulla salute, sul lavoro, sui figli e sulla possibilità stessa di ricominciare. E colpisce in modo diverso a seconda di disabilità, reddito, origine, età, accesso ai servizi. Guardarla

Martedi, 25/11/2025 - La violenza contro le donne attraversa vite, corpi e menti in modi diversi, ma quasi mai lineari. Non ha una sola dimensione: si intreccia con identità, condizioni economiche, salute, disabilità, età, maternità, lingua, status sociale, territorio.
Sono tutti aspetti che si accumulano e si sommano, amplificando la vulnerabilità e le conseguenze a medio e lungo termine.
Si parla troppo poco di chi c'è, di chi sopravvive, e ciò che resta dopo, le conseguenze che le violenze hanno sulla salute, sul lavoro, sui figli, sulla possibilità di ricominciare.

La violenza si muove su tanti piani, quello psicologico, verbale ed economico, ed è diffusa e quanto e più di quella fisica; si innescano situazioni, che nel medio e lungo termine modificano anche la risposta del corpo dall’interno: lo stress cronico altera ormoni, pressione, sistema immunitario, solo per citare qualche esempio, ormai dimostrato da tanti studi. Studi come quelli pubblicati su The Lancet Psychiatry mostrano che l’esposizione ripetuta alla coercizione aumenta in modo significativo il rischio di ansia severa e Disturbo post traumatico da stress, incluso quello più complesso, con conseguenze che permangono anche a distanza di anni*¹.
Per molte donne, soprattutto quelle economicamente dipendenti dal partner, la rinuncia alle cure diventa parte del meccanismo stesso della violenza: visite mancate, difficoltà nell'accesso ai farmaci, difficoltà a prendersi cura di se stesse.

Questa complessità si amplifica nelle vite delle donne che convivono con una disabilità fisica, sensoriale o invisibile, una malattia cronica, una patologia complessa di difficile diagnosi, tutte condizioni che si traducono spesso in un lavoro precario, nella fatica nell'occuparsi dei figli, senza aiuti. Le ricerche più recenti — come la revisione globale pubblicata su BMJ Open nel 2025 (Campo-Tena et al., PMID: 41193207) — mostrano che le donne con disabilità hanno da due a quattro volte più probabilità di subire violenza e di trovarsi in situazioni di vulnerabilità nella vita familiare e relazionale. Non perché “più fragili”, ma perché più esposte a dipendenza anche economica, isolamento, barriere comunicative, poca accessibilità ai servizi. Spesso i segni dell’abuso vengono confusi con sintomi della loro condizione di base: un dolore attribuito alla malattia, una caduta scambiata per mancanza di equilibrio, un silenzio interpretato come “difficoltà cognitiva”, mentre tante situazioni si amplificano per le conseguenze di abusi fisici e psicologici, e vengono ignorate. E così la violenza resta dove non dovrebbe: nella zona cieca di chi dovrebbe vederla.
La stessa violenza assume ulteriori forme diverse: isolamento digitale, confinamento in casa, minacce legate ai documenti,ad un vonto corrente, ricatti sulla custodia dei figli. Situazioni che accadono a tante donne straniere, molte non denunciano perché non sanno se verranno credute, se potranno restare nel Paese, se perderanno i loro bambini.
Le donne che subiscono la violenza mentre crescono dei figli affrontano un doppio carico: salvare se stesse e proteggere chi dipende da loro, correndo pericoli quotidiani. Le evidenze di BMJ Global Health*²mostrano che l’esposizione infantile alla violenza domestica altera lo sviluppo neurologico e aumenta il rischio di disturbi emotivi e fisici in età adulta. Tuttavia, nel momento in cui una madre tenta di allontanarsi, proprio la presenza dei figli diventa una barriera: pratica se non si sa dove andare, a chi chiedere aiuto, se non si ha una famiglia di origine. Per non parlare delle barriere economiche, i costi di una nuova casa, la mancanza di servizi, paura di perdere la custodia, orari di lavoro incompatibili con la gestione familiare. E quando anche il lavoro diventa precario — assenze dovute a stress, ansia, visite mediche, insonnia, difficoltà di concentrazione — le possibilità di ricominciare si restringono ulteriormente, si entra in una spirale vera e propria.

Ricostruirsi non è mai un gesto individuale. Non dipende solo dalla “forza di volontà”, ma dalla rete di supporto e dalle possibilità materiali, che dovrebbero sostenere chi cerca di uscire da una situazione di violenza e di abuso, e chiede solo di riprendere la propria vita: reddito, supporto psicologico, protezione legale, servizi territoriali, accessibilità abitativa, consultori funzionanti, datori di lavoro che non penalizzano chi denuncia una violenza e chi ha bisogno di guarire. Senza questi elementi, la sopravvivenza stessa — quella fisica, mentale, economica — diventa una sorta di fortuna invisibile. Una conquista che alcune riescono a ottenere e altre no, nonostante lo stesso dolore, lo stesso rischio, le stesse esperienze traumatiche.

Le ricerche su JAMA Psychiatry mostrano che oltre il 70% delle donne che escono da una relazione violenta sviluppa un disturbo psicologico significativo nei due anni successivi se non riceve un sostegno adeguato. Ma la sofferenza non è solo clinica. È perdere il lavoro perché non si dorme da settimane; è non riuscire a partecipare a una riunione perché l’ansia immobilizza; è vedere il rendimento scolastico dei figli crollare; è vivere in stanze provvisorie; è dover ricominciare mille volte nel silenzio. È una ferita che ha ripercussioni collettive.

Intervenire significa riconoscere questa stratificazione, non ridurla a un'unica storia. Significa rendere accessibili le cure, garantire percorsi di protezione stabili, sostenere economicamente chi lascia un partner violento, intercettare i segnali invisibili nel corpo e nella psiche, proteggere i figli come vittime primarie.

Il 25 novembre certo ci ricorda che la violenza può avere ripercussioni sanitarie, sociali e umane, che attraversano generazioni. Ma ci ricorda anche che può riguardare tutti i contesti, è vero che ci sono situazioni di maggiore vulnerabilità ma non ci sono eccezioni. Guardare la violenza in modo trasversale significa, semplicemente, guardarla nella sua realtà. È rendere possibile ciò che ancora oggi, per troppe donne, è un atto fortuito di sopravvivenza più che un diritto: poter ricominciare.

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