Frammentazione e disomogeneità territoriale sono i mali di un sistema di servizi sociali che è cresciuto ma non è adeguato ai bisogni di una società che invecchia. Bisogna rispettare gli standard nazionali e andare oltre l'autonomia regionale
L’assistente sociale ha un ruolo strategico nell’architettura del welfare italiano: è la persona che accoglie i bisogni del paese profondo, la professionista che trova le possibili soluzioni. Un lavoro di cura che assicura ascolto alle fragilità e che chiede maggiore rispetto. Alla Presidente dell’Ordine (CNOAS) Barbara Rosina chiediamo di illustrare i problemi di una professione in profonda connessione con una società che sembra sempre più vulnerabile e problematica.
Il welfare italiano nei decenni è cresciuto, espandendo i suoi ambiti di azione in una società complessa in cui via via si stratificavano fragilità e bisogni. Dai minori agli anziani, dalle dipendenze alle disabilità, dalla violenza di genere alla povertà, nelle varie strutture territoriali arrivano innumerevoli richieste di ascolto e di servizi sociali e sociosanitari. Con uno sguardo complessivo, come giudica l’attuale impalcatura del sistema e quali interventi delle istituzioni sarebbero necessari?
In questa fase storica non possiamo avere un'idea negativa dell'impalcatura del sistema dei servizi sociali, nel senso che tanto è stato fatto negli ultimi dieci anni per incrementare il numero degli assistenti sociali e, in generale, dei professionisti che lavorano nei servizi: penso agli educatori oppure agli psicologi. In qualche modo, ma non dappertutto, sono stati attuati i livelli essenziali che la 328 del 2000, la legge Turco, ha previsto attuando tutta una serie di interventi e di servizi. Da un punto di vista ‘macro’, quindi, c’è stato un riconoscimento della necessità di servizi di prossimità per le persone in situazioni di fragilità e di vulnerabilità. Accanto a questo va detto che siamo in un ‘sistema Italia’ molto frammentato che determina differenze anche profonde:tra nord, centro e sud, ma disparità le troviamo anche nella stessa regione, per esempio tra le aree più centrali o metropolitane rispetto alle zone periferiche o di montagna. È una frammentazione che si riproduce anche in ambito sanitario e sociosanitario. Ogni settore ha dei finanziamenti, i cosiddetti ‘silos’, e ciascuno va avanti per la propria strada senza riconoscere che le persone hanno un'unicità cui corrispondono specifici bisogni. Questi sistemi dovrebbero comunicare tra loro, se vogliamo davvero organizzare un sistema in grado di cogliere, insieme ai bisogni individuali, anche quelli complessivi delle famiglie e della comunità. Quindi la frammentazione è un problema: tra ambiti, tra finanziamenti, tra professionisti. Altra questione fondamentale è la disomogeneità territoriale, nel senso che la garanzia dei diritti di cittadinanza non può essere differente a seconda del luogo in cui abito. Tutte le rilevazioni e le analisi dei dati certificano disparità, anche pesanti e lo stesso Osservatorio sui servizi sociali del CNEL segnala gli investimenti dei comuni per ogni residente: si va dai quasi 600 euro della Provincia autonoma di Bolzano ai 16 euro della Calabria. Con delle differenze così non si può non parlare di disomogeneità territoriale e di diritti costituzionali non garantiti. C’è poi l’aspetto professionale che, in base alla norma, prevede un assistente sociale ogni 5.000 abitanti e che - lo certifica l'Ufficio parlamentare di bilancio - abbiamo luoghi in cui si è raggiunto e addirittura superato questo livello essenziale, così come abbiamo comuni dove c'è un assistente sociale ogni 14.000/15.000 abitanti. 
Questo è un tema delicato per un lavoro in cui contano molto le relazioni umane…
Certo, è importantissimo anche perché l’assistente sociale, al di là del carico di lavoro e delle situazioni di stress o del rischio di burnout, deve rendere conto ai cittadini che portano alla sua attenzione problemi gravi e si aspettano risposte. C’è da un lato il tema delle risorse che i comuni investono e dall’altro il problema del turnover. Lei si immagini situazioni in cui le persone arrivano alla nostra scrivania e devono raccontarci vicende terribili che hanno procurato sofferenze e, magari, fratture nelle famiglie; non posso immaginare che tra sei mesi cambierà l’assistente sociale e questa persona dovrà ripresentare a un nuovo interlocutore la sua situazione. In parte evitiamo questo problema con la correttezza etica, valoriale e tecnica della nostra professione. Studiamo la documentazionee e non dobbiamo rifare proprio tutte le domande, ma non basta, perché alla base dei servizi c'è la relazione di fiducia. Senza relazione di fiducia nulla si fa. In questo senso la precarietà per le/gli assistenti sociali è un problema per il lavoratore ma ha un impatto serio anche per chi si rivolge ai servizi sociali; domandiamoci se stiamo garantendo a quel cittadino/a un'equità e un diritto ad avere delle prestazioni soddisfacenti. Dunque il sistema è molto migliorato, ma ci sono ancora criticità che dobbiamo conoscere.
 
Recentemente ha parlato del ‘ruolo politico’ dei servizi sociali. Cosa intende per ‘ruolo politico’?
È un concetto caro non solo a me, in quanto presidente, ma ad ognuna/o dei 48mila assistenti sociali italiani; parlo della storia di una professione che nasce per tutelare i diritti di persone che spesso sono senza voce e che non hanno rappresentanze, che non hanno la capacità o gli strumenti o i luoghi dove segnalare ai decisori – gli amministratori, i miei superiori, la mia organizzazione - quali sono le difficoltà e come possono essere affrontate. L'assistente sociale è un professionista che dà voce alle situazioni di altri. Quindi quando si dice ‘ruolo politico’ non si intende lo schierarsi per un partito o per un altro, mai assolutamente, ma una professione che ha la responsabilità di garantire i diritti costituzionali attraverso l'applicazione dell'articolo 3, “rimuovere tutti gli ostacoli materiali e immateriali che possano limitare l'autonomia, la capacità di decisione delle persone”. ‘Ruolo politico’ è la politica di un servizio pubblico e privato che ha la responsabilità di costruire coesione sui territori, di rimuovere ostacoli e disuguaglianze. L'atto in una sede sociale è sempre un atto politico.
Ci sono connessioni tra il welfare e il cammino di emancipazione delle donne dal dopoguerra?
C'è un'interrelazione tra l'emancipazione femminile e il sistema di welfare ma dico anche, con una battuta, che è una sfida mai finita. È vero che negli anni Settanta c'è stata una spinta importante per le donne: sono gli anni delle grandi riforme e della conquista di tante leggi importanti (SSN, 194, asili nido, servizi educativi ecc), dell’ingresso nel mondo del lavoro e di percorsi di studio importanti. Ma è una battaglia mai vinta perché i dati ci dicono che la povertà femminile ancora oggi continua ad incidere, spesso indipendentemente dal livello culturale. E aggiungo che fino a quando non affrontiamo i problemi che ho segnalato prima - di frammentazione e disomogeneità territoriale, di sottodimensionamento dei servizi - non possiamo davvero pensare che possano essere libere di scegliere di dedicarsi alla carriera lavorativa, considerati i carichi di cura che hanno nelle loro famiglie. Se ho bambini piccoli e nel mio comune non ci sono abbastanza asili nido o scuole dell'infanzia, qual è la conciliazione vita-lavoro che io posso permettermi e quindi qual è l'investimento che posso fare sulla mia autonomia?.. che non è solo autonomia economica, ma che ha a che fare con la famosa Piramide dei bisogni di Maslow, che nel punto più alto dei bisogni pone il riconoscimento del Sé. Come posso fare queste scelte in assoluta libertà se ho ancora un welfare familistico? Se tante riforme ci hanno dato delle garanzie, oggi vediamo che le donne continuano a guadagnare meno degli uomini e aver rotto dei soffitti di cristallo non equivale ad aver risolto tutti i problemi. Ovviamente sto generalizzando, ma sono rischi che devo segnalare perché li intravediamo con le tante persone che vivono situazioni di particolare vulnerabilità come, per esempio, le donne vittime di violenza. Osservo, inoltre, con preoccupazione una sorta di anestesia della nostra società, come se non ci fosse questa consapevolezza o non si riuscisse a decodificare cosa sta accadendo. Se siamo partiti da anni in cui le battaglie erano all'ordine del giorno perché c'erano tante conquiste da fare, adesso mi sembra che siamo tutti un po' disorientati, dimessi, incapaci di investire sul bene comune. 
Alla luce di due fattori di profonda modifica del tessuto sociale come la diminuzione delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, a suo parere quali sono le prospettive di tenuta dell’attuale sistema?
Quello della riduzione delle nascite e dell’invecchiamento della popolazione sono fenomeni presenti in Italia da un certo numero di anni. Stiamo parlando di una società attraversata sempre più da situazioni di solitudine in cui le reti familiari sono molto sfaldate, dove non c'è più la vicinanza che ti consente di contare anche solo sullo sguardo amico di un vicino. È una situazione nuova che non possiamo pensare di affrontare con gli strumenti del passato. Se lo facessimo saremmo perdenti perché richiederebbe di aggiungere ogni anno tanti soldi per ospedali, interventi sanitari, strutture residenziali per persone anziane o con disabilità. È indispensabile darci dei modelli diversi e lavorare su molti piani, come indicano gli studi sull’ageismo, cioè sull'invecchiare bene. Penso alla prevenzione o alle strategie di scambio con progettualità che fanno convivere anziani e giovani. Poi occorre lavorare sull'integrazione sociosanitaria reale (non quella sulla carta) che in alcune zone assolutamente non funziona. Il sostegno alla natalità presuppone aiuti al lavoro femminile e il superamento della precarietà del lavoro in generale. Dobbiamo immaginare azioni di sistema che richiedono di pensare a standard nazionali veri che vadano oltre l'autonomia regionale, immaginare città age friendly cioè amiche delle varie età della vita (anziani ma anche minori o persone con disabilità) con luoghi di aggregazione per le varie fasce di età. Se noi non lavoriamo su questi aspetti, non avremo un tessuto sociale che sia in grado di riuscire ad andare avanti con i presupposti che abbiamo adesso. 
Come Ordine pensate che l’Intelligenza Artificiale avrà un impatto anche nei servizi alla persona, nonostante sia un settore in cui la corporeità e la relazione umana sono fondamentali?
Quando pensiamo all'Intelligenza Artificiale ci diciamo che è un tema sfidante. A prima vista sembra essere qualcosa che non ci riguarderà mai, poiché siamo i professionisti della relazione e non possiamo pensare che persona possa fare un colloquio con una macchina. Il punto è che l’AI non è questo. Dalle piattaforme di raccolta dati, che noi già usiamo, possiamo aspettarci un accompagnamento nel prendere la decisione ma io professionista devo essere bravo a capire se quella decisione è adeguata a quella persona oppure se è da rivedere, oppure se poggia su bias, stereotipi o errori di lettura. Attraverso la mia professionalità, e grazie ai lunghi studi che ho compiuto, sono in grado di capire se e quali altre domande fare per cercare la risposta più adatta al problema che la persona ha portato alla mia attenzione. Quindi l'AI può solo essere un aiuto a dare maggiori garanzie circa la migliore soluzione. È una fase in cui stiamo facendo riflessioni perché dobbiamo capire come funziona la macchina per poterla correggere o per individuare gli elementi che possono fuorviare la mia decisione. È un work in progress e intanto collaboriamo ad una ricerca sull’AI nei servizi. Inoltre abbiamo iniziato a scrivere nel nostro codice deontologico quali sono le accortezze da utilizzare sia nella comunicazione sui social che nella comunicazione attraverso l’AI. 
Gli assistenti sociali in Italia sono 48mila: quante sono le donne? quali sono le criticità di questa professione e quale il suo valore?
La nostra è una professione al 94-95 per cento femminile, anche per un retaggio culturale che vede una maggioranza di donne nelle professioni di cura: infermiere, educatrici, ostetriche... Per esercitare la professione di assistente sociale è obbligatorio per legge iscriversi all’Ordine e sottostare ad una serie di regole che garantiscono competenza e responsabilità nel rispetto delle regole date sia dalla norma istitutiva della nostra professione, sia dalle varie leggi che regolamentano i vari interventi e servizi. C’è poi un Codice Deontologico, quale importante strumento di orientamento per i principi della professione: uguaglianza, diritti, rispetto dell'individualità e delle differenze, oltre che dell'autodeterminazione delle persone. Come professioniste abbiamo grandi responsabilità e tutte le leggi promulgate negli ultimi 5/6 anni in materia di assistenza (persone anziane, disabili, minori, con dipendenze da sostanze ecc) prevedono la presenza e un ruolo per gli assistenti sociali. Per questo come Ordine chiediamo che sia riconosciuta la necessità di una formazione adeguata e sostenuta, anche perché i nostri percorsi di studio sono fermi a 50 anni fa e nel frattempo il mondo è cambiato. Bisogna investire sulle professioni di cura, anche perché sappiamo a cosa andiamo incontro da un punto di vista epidemiologico e demografico. Occorre quindi una responsabilità pubblica che riconosca il senso delle professioni, a partire dal governo e da chi scrive le leggi, che non deve mai perdere di vista il benessere del nostro paese e di tutti i cittadini. Pensiamo al Covid, con gli infermieri raccontati come eroi, e alle violenze fisiche che troppo spesso le cronache ci mostrano nei Pronto Soccorso. Finita la pandemia siamo stati un po' tutti dimenticati. Serve una campagna promozionale delle professioni di cura finalizzata al riconoscimento delle responsabilità di cui sono investite affinché non siano vittime del malessere diffuso nel nostro paese, legato a situazioni economiche e sociali di deprivazione, di difficoltà, di non soddisfacimento di bisogni. Bisogna capire che sono anche professioni di frontiera, sono la faccia dello Stato. Non sto dicendo che è colpa del cittadino, ma è un ragionamento di sistema che è arrivato il momento di fare. All’attenzione del Governo c’è la riforma delle professioni e il riconoscimento del ruolo e delle funzioni. Abbiamo avanzato delle proposte e speriamo di essere ascoltati. Va capito che noi siamo un'infrastruttura di coesione e, come tale, dobbiamo essere considerate importanti e irrinunciabili come lo sono strade, ferrovie o campi sportivi. Su questa infrastruttura di coesione sociale bisogna investire perché è quella che tiene insieme le comunità e non le fa esplodere anche in situazioni di difficoltà. Se come Paese ci diamo questo obiettivo, riusciamo a realizzare un sistema che riconosce dignità alle persone, che le riconosce nella loro unicità, nella loro possibilità di esprimersi e di avere soddisfazione di diritti che, fino a prova contraria, la Costituzione prevede per tutti/e. 
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