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Atlante degli abiti smessi

Atlante degli abiti smessi

Elvira Seminara ci accompagna attraverso l'inventario dei giorni strappati e, talvolta, ricuciti, delle sue protagoniste

Lunedi, 05/07/2021 - Atlante degli abiti smessi, Elvira Seminara, Einaudi, 2015

Attenzione: questo non è un libro da leggere in prossimità del cambio di stagione. Se già è un’operazione che vi mette in crisi, con questa lettura rischiate di restare aggrappati ai vostri abiti con tutte le grucce.
Elvira Seminara, raffinata narratrice delle sfumature, si affida anche qui alla descrizione di quelli che possono sembrare orpelli e che invece sono i protagonisti assoluti, i vestiti, in una storia in cui la trama è quasi un pretesto.
La narratrice è Eleonora, che dopo la morte dell’ex marito e la rottura col compagno, fugge da Firenze e si trasferisce a Parigi. Da lì, tenta di ricucire il difficile rapporto con la figlia Corinne, strappato “come un lenzuolo che ha subito troppi lavaggi, vestito troppi letti”.
La donna decide di redigere un inventario del suo guardaroba rimasto a Firenze, affinché la figlia ne abbia cura, e ne scelga i capi che preferisce, ma solo dopo aver letto i suoi consigli. Eleonora infatti ricostruisce la storia di ogni capo catalogandolo accuratamente sotto innumerevoli voci, e arricchendo l’atlante di consigli e moniti.
In realtà la figlia non risponde alle sue lettere e le porta un rancore, a seguito della scomparsa del padre, che gronda da ogni pagina, fino a tracimare: è una rabbia che graffia, un tapparsi le orecchie davanti a questa madre che raccoglie tutti i pezzi di sé e glieli porge senza riserve, ma che lei calpesta con malagrazia. È molto difficile accettare i ruvidi sentimenti della ragazza, perché pagina dopo pagina ci si innamora di Eleonora, di questo suo lungo elenco che non è altro che una goffa ed eccentrica lettera di amore, mai spedita, mai recapitata.
E da questa lettera d’amore schizzano qua e là brandelli di vita, di ricordi lacerati e di altri assolati, mini storie poggiate lì quasi per caso, tra la descrizione di un abito e un altro, come si farebbe con un giacchetto che non si sa bene dove posare. Ogni scorcio di storia è più di un racconto, è la promessa di un romanzo.
Elvira Seminara è la regina degli aggettivi: nella sua scrittura, sono funamboli che danzano su sorprendenti ossimori e sinuose sinestesie, e spesso sono veri e propri protagonisti dotati di anima e animo che bucano la pagina ed emergono dal libro, ti si parano davanti e, mani sui fianchi e gambe aperte in stile western, ti sfidano: allora, l’hai capito o no che qui la star sono io? Basti pensare, solo per citarne alcuni, a “col cuore smagliato in mano”, o “gonne disidratate”, “buio piagnucoloso”, “luce rancida”, “i giorni pietrificati di febbraio”. Le parole sono abbinate come perfetti twin-set, mai una sciatteria, un accostamento di cattivo gusto, magari tailleur spezzati che non avresti mai detto, e invece insieme stanno una meraviglia.
Insomma, se pensate che gli abiti siano pezzi di stoffa confezionati per ricoprirvi e da riporre nei guardaroba, da questa lettura uscirete stravolti da ben altra verità, che vi lasceranno piuttosto storditi, perché qui si entra in una dimensione assolutamente altra. Allacciate le cinture perché il viaggio è entusiasmante, ci sono categorie di abiti che non avevate mai contemplato, dai “vestiti che dopo vent’anni che li conosci non hai ancora capito se hanno i rombi neri o marroni”, ai vestiti compassionevoli, vestiti grati, disadattati, che ricordano troppo, di meticolosa tristezza, vestiti-tana, impostori, sopravvissuti, o sovraccarichi di fiori più o meno spampanati. Avreste mai pensato di avere tutta quella gente nell’armadio? E che folla, che caratterini! Vestiti animati, di carattere, che non dai via per paura di dare via il ricordo di quel giorno, e non li indossi per timore di sgualcirlo, quel ricordo. E poi, signore mie, alzi la mano chi non abbia mai incontrato i dispettosissimi “Vestiti elfi. Che non trovi in nessun posto quando li cerchi. Ma poi rispuntano beffardi come niente fosse, in bella vista, proprio là, esattamente dove prima non c’erano. Inutile spostare grucce e rovistare, in questi casi, meglio non accanirsi, scegliere un altro vestito, tanto ritornano. Tu devi far finta di nulla. Tieni gli occhi chiusi, se senti un fruscio mentre dormi. Devi stare al gioco se vuoi la pace nel tuo armadio”. (Personalmente, quando mi capitano, partono le mie feroci quanto ingiustificate accuse alle figlie per avermeli sottratti, salvo poi, dopo la miracolosa ricomparsa, richiudere silenziosamente l’anta sperando che nessuno se ne ricordi).
Per non parlare dei “vestiti ossessivi. Appiccicosi. Che vorrebbero starti sempre addosso. Alla fine vincono e non li posi più, per rimetterli il giorno dopo e l’altro ancora”. Abiti orgogliosi e offesi, permalosi e vanitosi, abitudinari e noiosi. E insomma, non chiamateli pezzi di tessuto.
Come un orlo che si scuce, qui si sfalda il confine tra oggetto e personaggio, si sciolgono le frontiere dei campi semantici: “Mi fanno male tutte le parole, tirano, pulsano, si annodano – le cartilagini, le unghie, mi fa male un osso mai sentito sulla spalla, un punto della vita dove c’è solo pelle. Mi fanno male i chiodi, le virgolette, le chiavi della porta, i ganci dei vestiti, la forchetta”. Ed è il mondo inanimato che prende il sopravvento: “Non siamo noi a smarrire le cose, come crediamo – al mare, in strada, nelle case. Sono loro che ci abbandonano, cercando di meglio”.
Questo libro è una delicata poesia. Sugli incontri, sugli amori che si sfilacciano, “nelle coppie logore ma salde c’è una tristezza sistematica”, sui giorni difficili, “c’è un momento esatto in cui il mondo comincia a fraintenderti”, e quelli che sorprendono. È questo il lascito prezioso che Eleonora confeziona per la figlia, cucendo uno a uno gli scampoli della sua vita, con cui lei possa coprirsi, o ripararsi dalle insidie dei giorni a venire: “Come vuoi tu è la frase più diabolica nel feroce linguaggio nelle convenzioni. Si usa per chiudere una partita fingendo che sia stata ad armi pari, o sia comunque la migliore soluzione (dunque, per giunta, onore all’avversario, che l’ha trovata). O per fingersi succubi, dunque generosi. Per debolezza, o piccola viltà”.
“Guardati Corinne da questi mesi. Febbraio ha la febbre dentro. Lo vedi, il virus, nelle nuvole sconciate e macilente, scaricate sui tetti. E questa luce grumosa sui prospetti, i colori avariati sulle insegne.” E poi ci sono consigli che sembrano carezze: “Perché disperarsi, farsi del male, quando potresti cambiare le tende?”. E ancora: “Attrezzati di scatole, Corinne, per conservare in porzioni giuste gli avanzi del tempo”. “Stai attenta, quando cammini, a dove metti i pensieri”.
Tra perline e paillettes, passamanerie e cinte, scivola qualche gioiello: “Ogni amore bruscamente interrotto è un latrocinio, perché porta via nella fretta anche ciò che hai incollato addosso, come le alghe sulle grate dei tombini, o la polvere sul velluto, lo zucchero caduto sul piatto - la tua pelle sui suoi incisivi”.
Eleonora osserva e imballa bene tutto per la figlia, come istruzioni discrete per l’uso della vita, ed è in quest’ottica che le racconta di sé: “mi piacciono le abitudini degli altri, sono un ottimo esercizio di equa e diffusa compassione”. Così le dice della nuova amica Brigitte, la sua vicina, che la lancia a spintoni nella vita: “Brigitte è tornata con tanti progetti in regalo. Sapesse quanto mi è mancata, non solo in questi giorni, dico prima di conoscerci”.
Poi a un tratto, mentre è intenta nella stesura, si scopre, cala ogni velo: “Non è facile, no, organizzare la voci. Insieme fanno un coro bellissimo, ma per stabilire una gerarchia devi distinguerle una per una. A volte ne ho dentro tante, di voci, che non mi sembrano nemmeno mie, come venissero da altri armadi, minacciosi. Fa stare meglio, farne una mappa. L’inventario lo scrivo per te, Corinna, ma la verità è che conforta anche me”.
E intanto controlla la buca delle lettere, vuota, e sobbalza a ogni citofonata. “Dove finiscono le figlie che non rispondono?”, “per quanto tempo ancora partirai”, e compra spray per l’asma di una figlia-fantasma, e inventa trucchi per non soccombere.
Ma del resto, quel suo ricucire pezzo per pezzo la sua vita, è un percorso che deve fare da sola, per sé, ed è lei stessa a dirlo in una perfetta frase-ricamo: “Sono qui per ricominciarmi”.

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