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Coronavirus -  DELL’IGNOTO E DI ALTRE PAURE

Coronavirus - DELL’IGNOTO E DI ALTRE PAURE

Le riflessioni della prof.ssa Monica Toraldo di Francia

Giovedi, 14/05/2020 - Tra i molti elementi di riflessione suscitati dalla pandemia c’è la paura dell’ignoto, una sensazione sgradevole che ci pone di fronte ai nostri limiti. Abbiamo capito che del virus conosciamo ben poco e che, fin quando la scienza non troverà il vaccino o la cura, possiamo solo provare a difenderci, ma questo significa vivere in una condizione di minorità e di continuo allarme per un nemico invisibile. È qualcosa a cui non eravamo preparati né strutturalmente come società né culturalmente come individui. Ci pensavamo ‘invincibili’ e ‘padroni’ del mondo, ci scopriamo vulnerabili e ospiti del Pianeta insieme ad altri esseri viventi. Insomma questo microscopico virus che ha paralizzato miliardi di persone ci racconta, senza parlare, tutta la nostra fragilità che è un intreccio tra la paura di morire, di perdere il lavoro, di riorganizzare le nostre vite. Verrebbe da dire che non siamo poi così ‘evoluti’ se di fronte all’ignoto siamo atterriti come probabilmente lo erano i nostri progenitori all’alba delle civiltà. Continuando il ciclo di conversazioni filosofiche in collaborazione con l’Istituto Italiano di Bioetica, abbiamo rivolto queste sollecitazioni alla prof.ssa Monica Toraldo di Francia, Università di Firenze e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Seguono le sue riflessioni, mentre le precedenti conversazioni sono rintracciabili qui: il prendersi cura, la globalizzazione, la morte, Scienza: fidarsi/affidarsi; Infermieri e infermiere; Salute/economia, ecofemminismi, Terza età e vecchiaia, disabilità, IO/NOI: essere comunità

<< Vorrei partire, a premessa, da alcune considerazioni sul sentimento della paura, non solo nelle sue valenze negative di depauperamento della qualità della vita delle persone, ma anche nelle sue valorizzazioni filosofiche. Non mi addentrerò invece nelle acquisizioni in merito provenienti dagli studi di neuroscienze.
Nella filosofia politica della modernità il sentimento della paura, a partire da Hobbes, è stato tematizzato come risorsa capace di indurre gli uomini a limitare i propri desideri e comportamenti. Già Hobbes, tuttavia, aveva evidenziato come le condizioni di efficacia inibente della paura fossero legate all’essere le conseguenze dell’azione soggettivamente esperite come certe e temporalmente prossime (1) . Questo sentimento bifronte acquista una nuova rilevanza nella seconda parte del ‘900, nel momento in cui si comincia a parlare di ‘rischi globali’ che minacciano l’intero genere umano, a iniziare dalla minaccia atomica (2) fino ad arrivare alle minacce della catastrofe ecologica. Risalgono a questo periodo i molti studi filosofici e sociologici che qualificano le nostre società come ‘società del rischio’ (3),  nelle quali i rischi ‘naturali’ tradizionali si sommano ai rischi costruiti, creati da noi stessi, con conseguenze di breve e/o lungo respiro potenzialmente devastanti per il genere umano. Questa progressiva consapevolezza della magnitudine dei rischi a cui lo sviluppo tecnologico-scientifico ci espone, non è stata, tuttavia, in grado di promuovere nell’opinione pubblica un più maturo senso di responsabilità, tale da indurre modifiche degli stile di vita e dei comportamenti quotidiani, né nuove modalità di ‘governance’ delle società avanzate, funzionali a uno ‘sviluppo sostenibile’. È come se in quegli anni si fosse generata una sorta di anestesia collettiva, prodotta da un processo di rimozione reso possibile dal convergere di più fattori: l’enormità di ciò che potrebbe accadere e che l’immaginazione stenta a concepire, la distanza temporale, l’incertezza scientifica sul quando e come si potranno manifestare gli esiti più catastrofici. In questo contesto il sentimento della paura viene elevato da Hans Jonas a nuovo valore etico, da coltivare per la società di domani, valore che avrebbe potuto farci rinsavire (4) qualora fossimo stati disposti a identificarci coi posteri. Ma anche Jonas lucidamente riconosce che il ruolo assegnato al sentimento della paura si colloca, in definitiva, su due livelli distinti fra loro dissonanti: uno cognitivo e uno motivazionale, ed è proprio il secondo che risulta carente quando contrasta con il soddisfacimento dei nostri più pressanti desideri del presente. La domanda che molti di questi autori si sono posti è allora quella più drammatica: se l’accresciuta consapevolezza del rischio non genera incertezza nella vita quotidiana, dovremmo concludere che per la mancanza di un orientamento capace di illuminare diagnosticamente la nostra epoca “siamo capaci di apprendimento solo se colpiti da catastrofi?”  (5)
Ciò premesso, l’attuale pandemia per la sua dimensione globale, che ha colto la maggioranza degli Stati-Nazione impreparati, non solo ha impietosamente messo in evidenza la nostra comune vulnerabilità, dimostrandoci che il virus non conosce né muri, né altri tipi di barriere, ma ha anche reso temporaneamente efficace, sotto il profilo motivazionale, il sentimento della paura. La paura per un’infezione circolante, potenzialmente letale per noi stessi per i nostri cari, per i contigui, ha fatto sì che si accettassero, senza rivolte, molte restrizioni delle nostre libertà e, segnatamente, i comportamenti impostici per il contenimento del contagio, quali il distanziamento sociale, il confinamento domiciliare ecc..
Le misure prese nella prima fase del lock down hanno già avuto costi altissimi sotto il profilo delle accentuarsi delle pregresse diseguaglianze e del profilarsi di nuove sperequazioni, nei più diversi ambiti, a danno di molte fasce della popolazione; da qui l’intreccio fra molteplici tipi di timori e angosce, che possono o meno esser compresenti in ciascuna situazione critica: timore di ammalarsi e morire in abbandono, di non poter comunque accedere alle cure necessarie se affetti da patologie gravi non-Covid, di perdere lavoro e con esso mezzi di sostentamento e staus sociale, di dover completamente riorganizzare la routine quotidiana in circostanze di prolungata precarietà, in cui le sicurezze date per scontate sono venute meno.
Ma non è tutto qui; nel concreto, la lenta presa di coscienza che dovremo convivere ancora, per un periodo indefinito, con la presenza del covid-19 ed aspettarci in futuro altre pandemie, ci lascia inermi in balia di paure nuove e meno definite, di scenari fantascientifici finora pensati come appartenenti solo al mondo delle‘fiction’: la visione degli uomini nascosti dietro tute bianche che si aggirano in città blindate, di una vita quotidiana fatta di visiere, maschere, calzari, guanti ecc..ci perseguita, così come le lunghe code davanti ai supermercati, alle farmacie, dove non si comunica più fra di noi, ma solo con i nostri telefonini. Stiamo diventando alieni a noi stessi; comportamenti che prima ci sembravano familiari, come vedere qualcuno che per la strada sembra parlare a voce alta con se stesso, oggi li recepiamo in tutta la loro assurdità: siamo ostaggi di ‘tecnologie impenetrate’ (6) da cui dipendiamo per poter abbracciare virtualmente chi ci è caro, lavorare, studiare, continuare a comunicare. Il ‘post-umano’ è già fra noi? Per sopravvivere saremo continuamente sorvegliati, tracciati, trasformati in ‘networked person’, ovvero persone sempre in rete ? (7)
Entrando più nel merito di una questione specifica quali ‘il venir meno della certezza della cura che apre squarci sull’ignoto e ci spiega che la scienze non ha certezze’, vorrei partire subito con una constatazione, che riguarda in modo particolare il nostro paese.
A mio parere due sono gli atteggiamenti diffusi nei confronti della scienza, in particolare delle scienze medico-biologiche, che risultano speculari e ugualmente pericolosi perché non riflessivi: se il primo si affida alla scienza per avere certezze assolute, il secondo ne diffida per principio, preferendo credere alle teorie complottistiche - secondo le quali i grandi interessi economici sono sempre dietro alla non trasparenza dei risultati della ricerca - e/o alle ‘fake news’ circolanti sui social, piuttosto che ai dati e alle evidenze scientifiche consolidate nel tempo e su cui di volta in volta vi è accordo nella comunità scientifica di pertinenza.
Per quanto riguarda il primo aspetto, aggiungerei che è dalla svolta epistemologica verificatasi fra ‘800 e ‘900 che si parla di ‘ambiti di validità’ delle teorie scientifiche e si sottolineano gli aspetti selettivi e costruttivi della scienza, ovvero il nesso fra elementi soggettivi e oggettivi delle conoscenze scientifiche, senza che ciò comporti un disconoscimento del valore di uno stile di pensiero, la c.d. ‘mentalità scientifica,’che accomuna e vincola chi fa ricerca. Il progredire delle conoscenze scientifiche nei vari rami disciplinari è un continuo ‘work in progress’; non dovrebbe sorprendere, pertanto, che già agli inizi degli anni ‘80 dello scorso secolo, nel contesto dei dibattiti ecologici, venisse formulato quel ‘principio di precauzione’, poi recepito dalla stessa UE, pensato per gestire, a livello politico-giuridico, l’incertezza scientifica relativa al rischio ambientale e alle sue possibili conseguenze sulla salute collettiva (8). Pur rimanendo un principio controverso per la sua vaghezza precettiva, che ne ha resa problematica l’applicazione, tale principio nasceva proprio dalla presa d’atto dei limiti prognostici della scienza e dal fatto che i dati scientifici possono essere, in talune situazioni di urgenza immediata, ancora insufficienti, incerti e, talvolta anche contradditori, così da non poter costituire,di per sé, una base decisionale consolidata.
Per concludere, di questa drammatica esperienza che ha sconvolto le nostre vite gli esiti sono ancora incerti: tornati a una parvenza di ‘normalità’ riusciremo a considerarla, pur coi suoi enormi costi, anche come un’opportunità di crescita e di responsabilizzazione collettiva, di ripensamento critico della gerarchia dei nostri ‘bisogni’ e valori, nella raggiunta consapevolezza che ‘non ci si salva da soli’, o, al contrario, passata la paura del pericolo immediato, rimuoveremo ancora una volta ciò che abbiamo appreso per poi ritrovarci nuovamente impreparati ad affrontare le prossime emergenze?>>

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NOTE
(1) D'Andrea,D.(2004),Un mondo finito, un mondo comune. Rischi ambientali globali e limiti della paura, in: Maffettone S., Pellegrino G., (a cura di),Etica delle relazioni internazionali, Marco Editore,Cosenza

(2) Andersen, G.(1956),trad.it. L’uomo è antiquato vol. 1Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Milano 2007.

(3) Beck, U. (1986), trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000. Ma si vedano anche:Bauman, Z. (1998), tr.it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1999;Giddens, A. (1999),tr. it.Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna le nostre vite, il Mulino, Bologna 2000.

(4) Jonas, H. (1985), trad it. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, cap. 3,Alle soglie del futuro valori di ieri e valori per domani

(5) Habermas, J. (1998),trad.it. La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999, cap. 1, Imparare dalle catostrofi’? ripensando al ‘secolo breve’.

(6) Ivi

(7) Rodotà, S. (2006), La vita e le regole , Feltrinelli, Milano, cap.1,Il corpo; a questo proposito si parla di “Mutamenti che toccano l'antropologia stessa delle persone” e del possibile passaggio “dalla persona scrutata attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche”a una persona“modificata dall'inserimento di chip e etchette intelligenti in un contesto che sempre più ci individua come network persons, persone perennemente in rete, configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti , abitudini, contatti, modificando senso e contenuto dell'autonomia della persona”.

(8) CNB (2004), Il principio di precauzione: profili bioetici, filosofici, giuridici, 18 giugno



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