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Curfew (L’alibi perfetto)

Curfew (L’alibi perfetto)

Riflessioni a margine del romanzo di Jayne Cowie: possono la legge e il coprifuoco contrastare la violenza maschile contro le donne?

Giovedi, 15/05/2025 - Quando una donna viene trovata morta qualunque poliziotta sa che «dietro ogni donna morta c’era un uomo che avrebbe giurato che era l’amore della sua vita, anche quando se ne stava lì con indosso una maglietta intrisa di sangue e il coltello ancora saldamente in mano». Ma nel mondo creato da Jayne Cowie la legge sulla prevenzione del femminicidio, approvata dal parlamento britannico nel 2023, aveva fatto credere che ciò non fosse più possibile. Nota anche come “legge coprifuoco” era stata introdotta dopo l’uccisione in strada di una deputata da parte del suo ex fidanzato: «secondo il governo dell’epoca, la risposta adeguata era quella di rinchiudere gli uomini nelle loro case durante la notte». Il coprifuoco ha cioè creato un mondo inverso rispetto a quello che ho conosciuto da bambina nel piccolo paese di mia nonna: lì alla sera gli uomini si ritrovavano al bar, mentre le donne si ritrovavano entro i cortili delle proprie case per raccontarsi le loro vite; nel mondo inglese del coprifuoco invece sono gli uomini ad essere reclusi in casa mentre le donne sono libere di girare nei luoghi pubblici.

Così inizia il romanzo Curfew (trad. it. L’alibi perfetto, Ed. Fanucci, 2024) – da cui è stata recentemente tratta anche una serie televisiva per Paramount+ -, che ben si colloca nel genere distopico emblematicamente rappresentato da Il racconto dell’ancella della grande Margaret Atwood. Indubbiamente intrigante e appassionante, il romanzo di Jayne Cowie parte tuttavia da un presupposto errato, del cui errore, in effetti, si renderanno conto anche le protagoniste stesse: il maggior pericolo per le donne viene da uomini conosciuti, da partner ed ex partner, perciò il luogo più pericoloso per le donne è la casa, proprio quello che ci viene da sempre dipinto come il più sicuro. È per questa evidenza statistica che l’idea del coprifuoco per gli uomini è un modo di prevenire la violenza destinato a non prevenire affatto la violenza maschile contro le donne. Perché è necessario nominare le cose: la violenza di cui parliamo è una violenza agita dagli uomini, per ogni donna uccisa c’è un uomo assassino, un uomo che è nostro parente, nostro vicino di casa, nostro collega d’ufficio. O il nostro partner, ovviamente. Lo sa bene la poliziotta che indaga sul femminicidio della donna ritrovata nel parco: lei già lavorava in polizia quando il coprifuoco non esisteva, quindi sa bene che nessuna legge e nessun braccialetto elettronico sono in grado di fermare gli uomini violenti. La soluzione è altrove, in qualcosa di molto più difficile da cambiare: la nostra cultura. «È importante sapere perché le cose sono come sono», e le cose sono come sono perché il nostro modo di vivere, costruito in millenni, ci ha insegnato che la libertà delle donne vale meno della libertà degli uomini.
L’aspetto più interessante del romanzo di Cowie è, infatti, un altro: nel mondo da lei creato, le coppie uomo-donna che intendono iniziare una convivenza devono seguire un percorso di consulenza psicologica per verificare la loro compatibilità e ottenere un certificato di coabitazione, una sorta di via libera; la consulente domanda, per esempio, in che modo la coppia ha intenzione di condividere i lavori domestici, le disponibilità economiche, e se entrambi condividono un progetto genitoriale. Quest’idea è interessante sotto due aspetti: da un lato mette in luce le classiche questioni che in concreto possono creare delle disparità di potere all’interno della coppia, dall’altro presuppone che le donne non siano capaci da sole di scegliersi un partner uomo adatto. L’obbligo di consulenza è quindi un’ulteriore forma di protezione per le donne, ma ancora una volta non è un intervento che va ad agire sulla causa del problema: la cultura.

E arriviamoci allora a questa cultura patriarcale, tanto presente in noi quanto negata. Lo scorso 7 marzo, il Consiglio dei ministri ha annunciato la presentazione al Senato di un disegno di legge che mira ad introdurre nel nostro codice penale il reato di «femminicidio», perché, sia ben chiaro, nel nostro codice penale fascista il reato di femminicidio non esiste, anzi l’articolo 575 rubricato “omicidio” punisce l’uccisione di «un uomo», e non c’è dubbio che quando fu approvato nel 1930 si riferisse solo all’essere umano di sesso maschile, perché l’uccisione di una donna non aveva affatto lo stesso valore e non meritava la stessa pena, tanto da essere qualificata come delitto d’onore e punita con una pacca sulla spalla. Premesso che voler sradicare la violenza maschile contro le donne attraverso la legge significa non aver capito di cosa stiamo parlando, l’articolo 577bis di cui si propone l’introduzione reciterebbe: «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità è punito con l’ergastolo». Il disegno è attualmente in trattazione alla Commissione giustizia.
Ammesso che la Corte costituzionale non lo consideri incostituzionale, la riflessione che dovrebbe far sorgere questo nuovo ipotetico reato è: davvero i magistrati e le magistrate che si troveranno a giudicare l’uccisione di una donna da parte di un uomo hanno la preparazione necessaria per identificare quell’uccisione come femminicidio, come uccisione di una donna in quanto donna? No, la Commissione parlamentare sul femminicidio ci ha detto di no, ci ha detto che la magistratura italiana – salve pochissime eccezioni – ignora completamente la Convenzione di Istanbul – che pure è stata ratificata come legge dello Stato italiano – e tutto ciò che essa spiega sulla violenza di genere; la Commissione parlamentare sul femminicidio ci ha detto che la magistratura italiana – salve pochissime eccezioni – non ha una formazione specifica in materia di violenza di genere.
Non solo, la magistratura italiana – salve pochissime eccezioni – si rifiuta di concepire che l’uccisione di una donna da parte di un uomo sia un reato con caratteristiche peculiari, che richiede una formazione specifica rispetto a qualunque altro reato contro la persona. Prova ne è stato – solo per citare un caso noto – il fermo divieto imposto dal presidente della Corte d’Assise di Venezia al difensore di parte civile che voleva introdurre nella discussione una riflessione sul contesto sociale in cui si è collocata l’uccisione di Giulia Cecchettin: è solo un processo, è solo carta, la società non c’entra, o comunque non riguarda chi pretende di applicare la legge.
Perciò, nella remota ipotesi che venga introdotto nel Codice penale un reato specifico di femminicidio, con quale preparazione e con quale pregiudizio la magistratura valuterà «quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità»? Con quell’«almeno una delle iniziative formative specifiche» in materia di contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica prevista per la magistratura dallo stesso disegno di legge? Un giorno di formazione all’anno è sufficiente per superare quest’abissale ignoranza e questo rifiuto? Davvero?

Vediamo solo ciò che siamo allenati/e a vedere. Vediamo solo ciò che la nostra mente concepisce come verosimile e frequente. Tornando al romanzo di Jayne Cowie, di fronte al cadavere della donna ritrovata nel parco, la poliziotta più giovane non concepisce che l’assassino possa essere un uomo perché non ha vissuto il mondo precedente al coprifuoco e ha una totale fiducia nella tecnologia dei tag che identificano e segregano di notte gli uomini. Ma nessun sistema è infallibile. E chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Chi non conosce la storia delle donne non può comprendere perché oggi noi donne continuiamo a morire uccise dai nostri compagni, perché oggi noi donne a parità di lavoro veniamo pagate meno degli uomini, perché oggi noi donne abbiamo difficoltà a conciliare lavoro e impegni familiari, perché oggi noi donne siamo quotidianamente costrette a rivendicare la libertà del nostro corpo. Tutti questi aspetti sono invece ben noti all’autrice di Curfew, che spiega nella nota conclusiva la sua esperienza personale e le riflessioni che questa le ha provocato.
«Il Paese non è afflitto da un virus, ma da un’epidemia di violenza maschile. Qui nel Regno Unito, gli uomini uccidono due o tre donne a settimana, ogni settimana, e questo numero è rimasto costante per anni. È interessante per me che presentiamo le informazioni in questo modo. Parliamo di quante vittime ci sono, ma mai di quanti colpevoli. Nel 2019 l’Office for National Statistics ha stimato che ci sono 1,6 milioni di donne che vivono con situazioni di violenza domestica. Sappiamo […] che la maggior parte di queste aggressioni è compiuta da uomini. Non è azzardato dire che nel 2019 c’erano circa 1,6 milioni di uomini che maltrattavano le donne con cui vivevano. Probabilmente hai incrociato uno di loro per strada. Forse hai lavorato con loro, hai socializzato con loro, ti sei fatto riparare l’auto, controllare i denti o hanno insegnato ai tuoi figli, e molto probabilmente non lo sai nemmeno. La violenza domestica è un segreto, una cosa oscura e sporca che accade ad altre donne, a meno che, ovviamente, non stia accadendo a te, come è accaduto a me, perché io sono figlia di un uomo violento. Mio padre mi ha insegnato più di quanto avrei mai voluto sapere sulla violenza maschile, sul controllo coercitivo e sui giochi che gli uomini fanno con le donne che dovrebbero amare e di cui dovrebbero prendersi cura. Ho sempre saputo che un giorno avrei scritto di queste cose, ma non mi è mai sembrato il momento giusto, finché un giorno è successo».
Ecco che Jayne Cowie sa benissimo che la violenza contro le donne è colpa degli uomini, non delle donne; sa benissimo che ci riguarda tutte e tutti, e che anche la fine della violenza maschile contro le donne dipende da tutti e tutte noi.
L’autrice perciò si è chiesta «cosa faremmo se dessimo davvero valore alle vite femminili».
Tutto ciò che ci è possibile per tutelarle, evidentemente.
Educheremmo gli uomini alla non violenza, evidentemente, educheremmo le donne alle pari opportunità, evidentemente, educheremmo noi stesse/i a correggere quotidianamente le discriminazioni che vediamo e ascoltiamo, e che magari inconsciamente commettiamo. Educheremmo. Punto.
Ma in Italia l’educazione al rispetto, alla parità e ai sentimenti continua ad essere ostacolata, nel timore che l’uguaglianza – quella vera, quella che non esiste ancora - scardini le nostre certezze.
Il cambiamento spaventa, meglio rimanere nei confini che ci sono noti, e se ciò significa continuare a contare le donne uccise, così sia.
Conclude Jayne Cowie: «ho posto una domanda chiave: Gli uomini saranno sempre una minaccia? Lascio che sia tu a giudicare».

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