Elisabetta Simonetta: da Catanzaro a Parigi, expat per passione e ambizione
Originaria della Calabria, da gennaio 2025 è direttrice del Campus Condorcet, polo francese di eccellenza nella ricerca accademica. Una conversazione a tutto tondo tra formazione, professione e vita privata
Sabato, 02/08/2025 - È stato per me un vero piacere ed un onore raccogliere questa intervista, molto ricca e densa di spunti. Quello di Elisabetta Simonetta è un percorso articolato, ricco di esperienze formative e professionali, che l’hanno condotta dove è adesso: cioè a dirigere un importante campus universitario vicinissimo a Parigi, dopo una prima giovinezza trascorsa a Cortale, un piccolo paese della Calabria, poi gli studi a Firenze ed un destino che appare subito strettamente legato con la Francia. Un grande Paese per il quale da giovane studentessa nutre ammirazione e verso il quale sente una specie di spinta interiore.
Non è la prima volta che mi capita di intervistare una expat e devo dire che finora ho avuto la fortuna di raccogliere testimonianze di successo e talento. Ma quanto, queste brillanti affermazioni personali, ancora oggi ci parlano del profondo ritardo che l’Italia mostra in alcuni ambiti, come, appunto, quello accademico? Quanta ricchezza culturale e umana perdiamo ogni anno e quanto, per converso, il sistema di studi italiano, nonostante le sue difficoltà, ancora oggi è capace di formare persone che si fanno strada e onore nei posti del mondo nei quali decidono di vivere e di lavorare?
Sono domande complesse, alle quali non è forse possibile dare risposte univoche. Ecco perché la testimonianza diretta del vissuto di alcune di queste donne, che io reputo straordinarie, può aiutarci a capire meglio. Elisabetta è stata di una gentilezza estrema. Nonostante l’impegno costante che il suo incarico comporta, mi ha concesso del tempo prezioso per rispondere, con una chiarezza ed onestà ammirevoli, alle mie tante domande. La sua è una storia al confine tra le radici identitarie ed il cosmopolitismo.
È una testimonianza di vita molto bella e interessante, che può servire da esempio a tante giovani donne che hanno sogni, aspirazioni e voglia di trovare il loro posto nel mondo.
Grazie, Elisabetta.
Sulla pagina dell’Università Sorbonne Nouvelle di Parigi (www.sorbonne-nouvelle.fr/elisabetta-simonetta-145045.kjsp), lei descrive i suoi studi a Firenze ed il successivo incontro con l’ateneo francese. Vorrei che, brevemente, parlasse di questi trascorsi giovanili ai nostri lettori.
Sono cresciuta a Cortale, un piccolo paese dell’entroterra calabrese, in provincia di Catanzaro. Le mie origini, l’educazione ricevuta e la fervida identità culturale del mio paese hanno inciso profondamente sulla scelta del mio percorso formativo e di emancipazione: l’ho intrapreso per opposizione e per rimando, e in questo, credo, non c’è nulla di particolarmente originale. Laddove si può legittimamente immaginare un patriarcato dominante, esiste - e si afferma - un matronato fatto di resistenza, coraggio e talento, che si fa strada proprio là dove apparentemente non c’è spazio. Esiste, ed è potente e virtuoso, sebbene talvolta eccessivamente sacrificale: mi piace pensare di aver ereditato la forza di rivendicare una mia esistenza, tanto autodeterminata quanto io riesco a rendermi tale, dalle mie due nonne, ancor prima che dai miei genitori.
Il gusto per la lettura e la scrittura è invece un lascito paterno. La legittimità dei mezzi per immaginare un altrove, una pura dote materna.
Ero una brava studentessa, e il dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze - dove già due dei miei tre fratelli studiavano Scienze della Comunicazione e Filosofia - era la meta a cui aspiravo. A Firenze ho vissuto, studiato e lavorato per tre anni. Il desiderio di fare un’esperienza all’estero è nato frequentando i corsi di Anna Dolfi, in compagnia di uno studente francese, Pierre, di un toscano, Giulio, e di un abruzzese, Vito. Il dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze aveva (e immagino abbia tuttora) un legame con l’omonimo dipartimento della Sorbonne Nouvelle. In ogni caso, Pierre veniva da lì, e la sua libertà accademica, vissuta e incarnata con naturalezza, mi ha fatto intravedere un’ambizione nuova, non più soltanto sognata, ma assunta, fatta mia: andare oltre il fascino che la lingua e la cultura francesi esercitavano sul mio immaginario, oltrepassare, appunto, il confine, per confrontarmi e inserirmi in un tessuto accademico, sociale e culturale differente. Parigi è stata la mia scelta alternativa, non a Firenze, ma all’Italia tutta. E continua ad esserlo, pur sentendomi e riconoscendomi profondamente italiana.
Oggi, neppure quarantenne, è diventata Direttrice della Vita scientifica e dei partenariati al Campus Condorcet di Aubervilliers, vicino Parigi, dove ha preso servizio dallo scorso 5 gennaio 2025. Ha un ricco curriculum pieno di esperienze apicali in ambito scientifico e amministrativo, desumibili dalla sua pagina Linkedin. Quali sono le sfide che comporta questo suo nuovo incarico all’interno del sistema universitario francese? Quale l’impegno, anche in termini di ore lavorative?
Il ruolo che oggi ricopro al Campus Condorcet è stato senza dubbio un’opportunità ma, ancora una volta, soprattutto una scelta.
La scelta di lasciare, dopo circa tre anni, la direzione scientifica e dottorale della prima università francese nel panorama internazionale, l’Université Paris Sciences et Lettres, per dedicarmi a un progetto unico e ambizioso: riunire le Scienze Umane e Sociali francesi in un grande campus internazionale, dotato delle migliori risorse, infrastrutture - come un’immensa biblioteca, un archivio-laboratorio sperimentale e innovativo - e servizi pensati per far nascere nuove sinergie, offrire a studenti e ricercatori condizioni di lavoro e di studio ottimali, e accompagnarli nelle grandi sfide scientifiche europee e globali di domani.
Il Campus Condorcet si avvicina ormai alla conclusione della sua fase edilizia - quasi dieci ettari articolati su due grandi siti - e richiede più che mai visioni e aspirazioni come quella che mi guida: contribuire attivamente, in costante dialogo con le équipe degli enti membri (università, centri e istituti di ricerca), al buon funzionamento e al prestigio di un progetto unico e innovativo, federativo e interdisciplinare; partecipare alla creazione di sinergie scientifiche inedite e di partenariati fecondi, tanto con il settore pubblico quanto con quello privato, promuovendo al contempo un forte radicamento territoriale e un impatto sociale virtuoso.
Il Campus Condorcet è un progetto di portata eccezionale e senza eguali. Apre un orizzonte di possibilità che motiva profondamente l’umanista che sono, e mi restituisce con forza il senso di essere, oggi, nel luogo in cui bisogna essere per accompagnare e far crescere le humanities.
Lei si interessa molto di arte ed è anche direttore artistico e addetto stampa del Concorso internazionale di Musica classica “Giulio Rospigliosi” di Lamporecchio. Dunque, con la Toscana c’è un amore che continua?
Firenze è stata la meta di studio scelta, prima di me, da due dei miei tre fratelli, Gianluca e Giovanni; esisteva quindi una base familiare che ha, senza dubbio, orientato la mia preferenza. Oggi Firenze è la città in cui vivono i miei fratelli e mia nipote Emma, ed è anche il luogo dove si sono radicate amicizie profonde che amo ritrovare, al di là del tempo che passa. In un certo senso, Firenze è ormai casa: le mie visite annuali sono semplici e frequenti, persino più di quelle in Calabria.
Gli anni trascorsi a Lamporecchio, più precisamente a Spicchio, una sua frazione, nel cuore della Valdinievole, dove sorge l’incantevole e berniniana Villa Rospigliosi, hanno rappresentato una parentesi lontana dal mondo universitario. Sono stati anni importanti, ma circoscritti, e senza voler fare torto a nessuno – tantomeno a me stessa – posso definirli come una sorta di dorata prigionia, fatta di quiete, musica, affreschi e maternità: la mia prima maternità, inesperta e disarmante. Di quel periodo conservo soprattutto il legame con il Concorso Giulio Rospigliosi, a cui tengo moltissimo.
Tuttavia, la città toscana alla quale mi sento davvero legata è Pistoia, che ha dato i natali alla mia primogenita. A quella città mi uniscono sentimenti grandi e profondi, affetti imperituri e potenti che porto sempre nel cuore.
Anche lei è una musicista?
No, non lo sono. In passato ho studiato chitarra classica per un breve periodo, più per il laccio che mi unisce a questo strumento che per una reale aspirazione musicale. La musica, per me, è una terra senza tempo, il luogo in cui mi sento vibrare più intensamente: solo lei riesce a restituirmi, con chiarezza assoluta, la portata di un sentimento, di un’occasione, di un’emozione. Più ancora della poesia, che pure amo profondamente, ma che maneggio, è la musica che mi sovrasta e disarma. Tra me e lei esiste un patto: quando riecheggia, io taccio. Non amo parlare di rimpianti, e non credo di averne. Per molto tempo ho pensato che mi sarebbe piaciuto avere a disposizione un mezzo di espressione così potente, ma oggi sono felice di potermi abbandonare soltanto agli effetti che essa ha su di me.
Ho però voluto offrire a mia figlia l’opportunità che io non ho colto: da due anni studia violino al conservatorio del nostro arrondissement. Seguirla in questa passione che cresce con lei, che scandisce le sue giornate offrendole momenti maggiori che ama condividere con me, e che diventano così nostri, è per me fonte di un reale senso di pienezza.
Che legame oggi lei ha con Cortale, suo paese di origine? Quanto spesso ritorna nel suo Sud? In altre parole, quali sono i ricordi più vividi della sua giovinezza in Calabria?
Penso di aver già risposto a questa domanda nella mia prima risposta, ma posso aggiungere che uno dei motivi principali per cui mi sono appassionata alla poesia contemporanea a Firenze è stata la scoperta, passando attraverso la grande porta di maestri come Luzi, Sereni e Caproni, dell’ermetismo meridionale. I versi di Gatto, Siniscalchi e Bodini raccontano di morti e di vite intrecciate, di una lentezza abbagliante e incandescente, di radici lunghe e dolorose, ma necessarie. Lunghe perché siamo partiti lontano senza mai reciderle, per poi tornare e, ogni volta, sentirci un po’ morire.
Non vorrei essere fraintesa: non c’è ambivalenza nel mio legame con la mia terra madre. Ma pago il prezzo della libertà che mi sono presa lasciando un incanto millenario. Ogni volta che torno, la conoscenza di un altrove che ha inevitabilmente contaminato i miei tratti mi fa sentire un po’ estranea, quasi una traditrice, o nel migliore dei casi una pizia che, proprio perché ha visto di più, deve tacere.
E quando questo scarto diventa troppo pungente, sento il bisogno di ripartire. Un giorno saprò gestire questa sfasatura, che non mi creerà più disagio e farà di me una calabrese capace di incarnare l’universalismo culturale delle sue origini. Quel giorno sarò vecchia, saggia e compiuta. È un bel traguardo a cui tendere.
Immagino che il suo lavoro le dia la possibilità di incontrarsi e confrontarsi con persone di tutto il mondo… Ma, la presenza italiana del mondo accademico francese, trova che sia consistente?
Sono davvero numerosi i ricercatori italiani inseriti nel tessuto scientifico e accademico francese. Tra i migliori, molti occupano ruoli di rilievo, e conosco personalmente colleghi che, come me, ricoprono incarichi istituzionali e responsabilità importanti.
È una constatazione che, a un primo sguardo, può suscitare un senso di legittimo orgoglio. Ma dietro questa presenza così forte e qualificata si cela, in realtà, il sintomo dell’incapacità - o, almeno, la scarsa attrattività - del sistema accademico italiano, ancora troppo spesso segnato da logiche statiche e baronali.
A questa affermazione, tuttavia, voglio applicare le dovute riserve, evitando ogni generalizzazione. Esistono certamente contesti universitari italiani dove la meritocrazia trova spazio, e le classifiche internazionali testimoniano, in alcuni casi, eccellenza e dinamismo indiscutibili.
Anche la Francia, del resto, che non è figlia di un modello universitario del tutto compiuto, fa promesse che non può mantenere. Il retaggio napoleonico, che ha lasciato in eredità una frammentazione disciplinare nelle facoltà - da cui sono poi nate le Grandes Écoles - continua a segnare profondamente la struttura del sistema. Questo è, se non il principale, certamente uno dei motivi per cui la Francia non rappresenta, in definitiva, quell’Eldorado che alcuni immaginano per accademici e ricercatori europei.
A mio avviso, è ancora verso i modelli anglosassone e humboldtiano che occorre guardare con decisione: restano i più efficaci in termini di attrattività e visibilità internazionale, di capacità di innovazione e di apertura alla collaborazione con il mondo dell’impresa e dell’industria.
Ci può parlare della sua produzione scientifica e dei libri e/o articoli che ha scritto?
Durante gli anni di ricerca scientifica in Francia mi sono occupata dei limiti e delle possibilità di una reale autorialità femminile nella prima modernità. Dal modello elegiaco dell’eroina tragica e abbandonata sono approdata all’epistolografia, edita e inedita, intesa come un vettore e un compromesso scritturale meno canonico e codificato rispetto alla poesia, soprattutto nella sua variante familiare per le autrici.
Il mio lavoro ha riguardato in particolare le lettere - pubblicate e manoscritte - di Lucrezia Gonzaga e Giulia Gonzaga, e il ruolo cruciale che le loro reti epistolari ebbero nella diffusione dell’eterodossia religiosa tra Riforma e Controriforma, così come nell’esercizio concreto di un’agentività femminile all’epoca impensabile e dunque necessariamente camuffata.
Più che sulle possibilità, mi sono soffermata sui compromessi e sul prezzo da pagare: sull’alienazione e la negazione implicite in molte operazioni editoriali che, dietro la firma di un gruppo di nobildonne, celavano in realtà - neppure troppo - l’intervento di un editore, di un poligrafo o di un abile conoscitore dei gusti letterari di un pubblico sempre più femminile. Per essere definita “valorosa”, un’eroina poteva essere solo una santa o un uomo: le rare eccezioni a questa regola costituivano il mio terreno di indagine privilegiato.
Quando ho interrotto l’attività scientifica, ho iniziato a collaborare con case editrici come Nova Charta (Venezia/Padova) e Diane de Selliers, per la quale ho scritto un saggio dedicato ai trent’anni della sua attività editoriale d’eccellenza.
Quanto alla scrittura in versi, non ho mai condiviso testi in italiano, convinta che non ne valesse la pena. In francese, invece, sono sempre stata meno esigente e nel 2020 ho pubblicato una piccola raccolta di poesie. Attualmente sto lavorando a una nuova raccolta.
Dalle foto di famiglia (che ho sbirciato su facebook) ho visto che ha due bellissimi bambini: un maschietto e una femminuccia. Cosa li entusiasma della Francia e cosa dell’Italia?
Mia figlia è nata in Italia da padre italiano e si è trasferita con me in Francia all’età di tre anni. Da allora trascorre tutte le numerose e lunghe vacanze scolastiche in Italia. Mio figlio, invece, è nato a Parigi da padre francese, non ha mai lasciato la città e conosce l’Italia solo nei periodi più brevi in cui lo porto con me.
Il risultato è che in Elsa la fusione franco‑italiana è molto più compiuta e naturale, e io ne resto sempre affascinata. Lei sa muoversi con assoluta disinvoltura in quello che per lei è un unico mondo, sospeso tra due paesi, due lingue e due culture.
Per me, invece, i mondi restano due, e in entrambi continuo a percepire una certa estraneità.
Quanto a Jules, il suo prisma resta decisamente francese, e poco mi importa di chi mi suggerisce che dovrei renderlo “più italiano”: il poco italiano che parla lo pronuncia con un marcato accento francese, e va bene così. Diventerà ciò che vorrà e costruirà da sé il proprio legame con l’Italia. Del resto, anch’io non avevo alcun legame con la Francia fino ai miei vent’anni.
Come me, ama l’orizzontalità luminosa delle coste bretoni e normanne, l’oceano immenso. E come me, nel mare caldo della Magna Graecia si sente cullato come nel grembo materno.
La pluralità è un dono. Forse Elsa resterà il modello compiuto, mentre io e Jules continueremo, ciascuno a modo suo, a cercare l’una e l’altra cosa. Forse…
Cosa le piace fare nel suo tempo libero?
Sono sempre stata molto sportiva. Da bambina e adolescente ho praticato ginnastica ritmica e artistica, dai 7 ai 17 anni, per poi coltivare la passione per la corsa e per l’allenamento in sala. Questa passione mi accomuna a uno dei miei fratelli, Giovanni, con il quale condivido anche una profonda affinità intellettuale.
Adoro nuotare, ma solo al mare. Amo leggere e passeggiare a lungo senza una meta precisa. E, per quanto possa sembrare insolito, mi piace prendermi cura dei miei spazi e della mia casa con grande attenzione ai dettagli.
Il lavoro fisico mi alleggerisce il carico mentale e apre nuovi spazi di riflessione e creatività. Ho bisogno di muovere il mio corpo per fare ordine nella mente e portare chiarezza nel cuore.
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