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Elvira Serra e il suo libro Le stelle di Capo Gelsomino

Elvira Serra e il suo libro Le stelle di Capo Gelsomino

Tre generazioni di donne devono affrontare un segreto che minaccia il loro equilibrio. La più giovane se ne farà carico per liberarle tutte

Domenica, 05/01/2020 - Ci sono libri che ci capitano tra le mani quasi contro la nostra volontà, dopo essersi dati prepotenti spallate con i consimili per essere i prossimi. A volte li afferriamo con ingordigia, certi di essere sull’uscio di un’avventura eccezionale, perché le recensioni li hanno osannati, e il passaparola, e gli articoli, e i premi. Insomma, un prodotto garantito. E poi, all’ultima pagina, ci ritroviamo in mano un solo grande punto interrogativo: perché? Dov’è che è stato visto tanto incanto? E la delusione ci fa correre a pescarne un altro, come si fa quando si morde una mandorla amara, e allora ci precipitiamo a coprirne il saporaccio con una buona.
Altre volte ci accingiamo alla lettura svogliatamente, perché di quel libro non si è parlato molto bene ma ci sentiamo in dovere di leggerlo, oppure perché ce l’hanno regalato, o ci serve per una ricerca, o per aggiornarci, o ci è capitato in mano quasi per sbaglio. Ed è un’epifania. È quello che mi è capitato con "Le stelle di Capo Gelsomino" (ed Solferino), il romanzo di Elvira Serra.
Ero andata a quel frizzante festival di letteratura femminile che si organizza a Roma in ottobre (“Inquiete”) e avevo puntato la presentazione dell’ultima fatica di un’autrice che conoscevo e apprezzavo. Le organizzatrici però avevano deciso di proporre una presentazione a specchio con un’altra autrice che aveva trattato una tematica simile, e così mi ritrovai a seguire questa scrittrice di cui, lo confesso, non conoscevo nulla. Fu una presentazione brillante in cui il moderatore ebbe un bel daffare a destreggiarsi tra due donne intelligenti e autoironiche. Non si parlò molto della trama, a dire il vero, ma al termine della presentazione mi sentii quasi in dovere di acquistare anche il suo libro. A fine serata, quando mi resi conto che in virtù di questo principio avevo colmato una borsa di libri, mi pentii, ma ormai era troppo tardi. Parcheggiai una nuova pila di volumi sulla libreria e me ne dimenticai. Poi, per quel misterioso potere di attrazione che emanano i libri quando vogliono farsi scegliere, ne ho sentito il richiamo e l’ho pescato. Così, senza aspettative particolari.
Dopo poche pagine avrei voluto avere il numero di telefono dell’autrice per scusarmi delle mie resistenze peraltro infondate. Ho divorato il libro in due giorni, e solo perché ogni tanto la vita si frapponeva alle pagine. È un romanzo meraviglioso, come se ne leggono raramente, è un viaggio speciale che vi invito a regalarvi: spegnete i cellulari, mettetevi comodi, una copertina sulle gambe e una bella tazza di tè. E tenetevi forte.
È una storia al femminile, tre generazioni di donne, alcune avvinte da amore incondizionato, altre da risentimento smodato. Sarà la più piccola, Chiara, ad avere il ruolo di dipanare il groviglio di tanto astio che avvinghia la madre Marianna e la nonna Lulù, per dare un nome al dolore che lo ha creato e liberarlo, liberando le due donne. Ma c’è una quarta protagonista: la Sardegna, con l’azzurro sfrontato del cielo, l’odore delle estati che Chiara trascorre con la nonna, l’aroma dei cibi preparati con generosità in una cucina che sembra senza tempo.
Una resa dei conti, un piazzare sul banco degli imputati un veleno che minaccia i giorni felici della narratrice, come liquido mefitico che si insinua tra le fessure dei suoi sorrisi. E la sentenza, a cui caparbiamente giungerà, sarà chiarissima e inappellabile: i legami di sangue non sanciscono alcunché, anzi a volte comportano solo doveri, vincoli legali, responsabilità che trasudano rancori e incapacità di amarsi, e ci si ritrova come bambini che vengano chiusi in una stanza e a cui venga imposto: dovete amarvi.
Il vero legame nasce da dentro, un’affinità, un’empatia, un risuonarsi l’uno nell’altro, che solo di rado accade con un consanguineo. La verità, che emerge luminosa da questo romanzo, è che ognuno di noi ha madri, padri, sorelle, fratelli, zii e nonni con cui non condividiamo mezza elica di DNA: ce li siamo scelti, magari li abbiamo cercati, oppure ce li siamo ritrovati così, di fronte, per caso, una domenica mattina, o un pomeriggio di pioggia, e ci siamo riconosciuti e abbiamo percepito il nostro legame, ne abbiamo avvertito fortissima la portata, forse retaggio di un’altra vita o chi se ne importa di cosa, sono fondamentali per noi, lo siamo noi per loro, e nessun documento lo conterrà. Ma potrà raccontarlo una canzone, una poesia, un romanzo, come “Le stelle di Capo Gelsomino”.
Al termine della lettura si può essere tentati di chiedersi quanto ci sia di autobiografico e quanto di inventato in questa storia, ma in fondo non ha importanza. Ciò che conta, è che ci resti dentro l’immagine di una coppia che viaggia sulla “scassamobile” lungo le strade di un paesino sardo, lui al volante e lei con la mano sulla sua, la nipotina seduta dietro, e ogni scusa buona per intonare insieme frammenti di canzoni e di felicità senza freni.
Ma restano anche i momenti di sofferenza, descritti con magistrale efficacia dall’autrice: “Ora piangevamo tutte e tre, le lacrime della nostra famiglia convergevano come affluenti sul pavimento del soggiorno, lasciando sopra le mattonelle diverse gradazioni di sale. Io mi stringevo alla nonna su un fianco, mamma si reggeva la fronte con le mani. L’infelicità si era raccolta intorno a quel tavolo, dove ognuna di noi doveva dominare un dolore diverso, troppo privato per condividerlo.”
Non c’è spazio per parole ricercate e asettiche figure studiate, la scrittura è delicata e fluida: c’è il sole, il sale, l’impeto del mare, gli amici dell’infanzia, l’albero nel giardino, il sentiero di ghiaia che porta alla casa. Una sinfonia della semplicità che, sola, permette all’amore di erompere, in barba ai legami biologici:
“Non contava la genetica, contavano i gesti, i sorrisi, le braccia sull’anguria, i miei piedi piccoli sperduti negli zoccoli. Non avevo mai riflettuto sui volti, chi somigliava a chi?, contavano i momenti. (…) Le leggi della biologia hanno poco a che fare con la dinamica degli affetti. Il taglio degli occhi si annulla di fronte a uno sguardo che ti accarezza, la forma di una mano si perde sotto il peso di un’anguria, il sorriso prende luce da chi ti guarda”.
Non è la genetica a creare l’amore, ma l’alfabeto della tenerezza, che è poi quello che resta. Come resta il profumo della marmellata di fichi, la cura impiegata affinché non si attacchi durante la cottura, l’attenzione nello sterilizzare i barattoli: una vera e propria “preghiera laica” che è il modo più potente e semplice con cui nonna Lulù si prende cura della nipote ogni estate. E allora, grazie al significato salvifico di questi gesti, la ragazza capirà finalmente chi è, e potrà camminare serena sul suo sentiero, quando ormai avrà intuito dove sono piantate le sue radici, che spesso si trovano molto più lontane di quelle di sangue.

Roberta Yasmine Catalano

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