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Festa della Repubblica: una giornata molto particolare per le donne

Festa della Repubblica: una giornata molto particolare per le donne

Il femminicidio di Sara, concomitante con il 70° anniversario del voto politico alle donne, ha costituito la giusta sprone per fare il punto della situazione su quanto in Italia predisposto in tema di contrasto alla violenza di genere.

Venerdi, 03/06/2016 -
Il 70° anniversario del voto politico alle donne ha connotato in maniera specifica la Festa della Repubblica, commemorata ieri nel Paese. Senonchè al momento celebrativo della prima volta in cui le donne italiane hanno esercitato il voto politico al referendum istituzionale del 2 e 3 giugno del 1946, si è aggiunta una forma particolare di mobilitazione, ossia la protesta contro la violenza di genere ed i femmincidi.

Due sono state le modalità con cui questo malcontento si è appalesato: la prima in forma collettiva è consistita nello scendere in piazza con cortei, sit-in e flash mob condividendo l’appello scritto dalla blogger Simona Sforza, appello che ha dato vita a veri eventi accomunati dalla medesima denominazione “Chi colpisce una donna, colpisce tutte”; la seconda in forma individuale è constata nel rendere visibile un drappo rosso ai propri balconi, così come sollecitato da un tweet lanciato in rete. Entrambe le modalità di mobilitazione erano, però, accomunate da #saranonsarà, coniato da Stefania Spanò che in una sua vignetta con protagonista Anarkikka aveva così scritto “Perché ora abbiamo la parola per dirlo, ma facciamo poco per evitarlo: femminicidio”.

Così mentre in molte città italiane si svolgevano iniziative per festeggiare la Repubblica, in altrettanti centri urbani le donne si riappropriavano degli spazi pubblici per sensibilizzare le proprie comunità di riferimento sulla necessità di un contrasto forte alla violenza di genere. “Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi” è diventato in tal modo lo strumento “per rompere l’indifferenza, per chiedere alle donne che siedono nelle istituzioni di mettere questo tema al primo posto dell’agenda politica nazionale e locale”.

Grandi città, come Roma, Milano, Napoli, Torino, Ancona, Ravenna, nonché altre come Bergamo, Reggio Emilia, Potenza, Castiglioncello, Cava dei Tirreni, San Benedetto del Tronto, sono così diventate quell’unica piazza ideale che protestava con una condivisa parola d’ordine: Stop femminicidi. Dopo l’imponente manifestazione di Se non ora quando? dell’11 febbraio 2011 le donne italiane si sono nuovamente affacciate da protagoniste sulla scena politica nazionale.

C’era un gran bisogno di un momento del genere, perché da tempo si auspicava un segnale forte che in tante, troppe, aspettavano, soprattutto quelle donne oppresse dalla rassegnazione di una vita fatta di soprusi e violenza, fino al punto di morirne. Come c’era altrettanta necessità di consapevolezza nuova sulla violenza sessuata, nuova perchè bisognosa di un proprio impegno personale, anche se solo per il tramite di un drappo rosso esposto alla finestra. Gesto non di poco conto, anzi fondamentale primo passo per continuare a percorrere insieme ad altre la stessa strada, quella della mobilitazione collettiva contro i femminicidi ed ogni altra forma di sopraffazione legata al proprio genere d’appartenenza. In fondo entrambe le forme di protesta, la pubblica e l’individuale, assumono una valenza particolare perché le donne italiane diventano, anche se per un solo tema, soggetto politico univoco. Elemento di per sé rilevante, visto che alle istituzioni pubbliche di riferimento è stata avanzata la specifica richiesta di predisporre un altro genere di misure per debellare la violenza di genere, nella piena consapevolezza che quelle attuali non sortiscono i risultati auspicati.

Sarà che ora, dopo un’assenza di quasi tre anni, è stata designata la nuova ministra alle Pari opportunità, a cui rivolgere le proprie istanze. Sarà che oggi come oggi si avverte la necessità di una sinergia tra le varie titolari di dicasteri che, ad esempio, consenta il decollo nelle scuole italiane di corsi di educazione alla sentimentalità, alla sessualità, al rispetto del genere femminile. Sarà che il femminicidio di Sara Di Pietrantonio, per i suoi particolari connotati, è uscito dalla sfera di una vicenda precipuamente individuale per assumere le vesti di un accadimento con rilevanti aspetti collettivi, come quelli legati alla mancanza di soccorso richiesto dalla giovane vittima. Oppure, sarà che proprio il 70° anniversario del voto politico alle donne ha costituito la giusta sprone per fare il punto della situazione e criticare quanto predisposto dai propri rappresentanti istituzionali in tema di contrasto alla violenza di genere, il cui approccio securitario si è dimostrato fallimentare. Ridurre il fenomeno a questioni private, in cui lo Stato ha il compito primario di punire il femminicida o lo stalker, significa rimandare nel tempo l’unica vera arma vincente contro la violenza sessuata. Quella della eliminazione, o per lo meno della parziale perdita di vigore della cultura machista, che vede nella violenza la cifra regolamentatrice dei rapporti tra i generi. Se fosse vera quest’ultima ipotesi, ben ha detto allora Chiara Pontremoli: “70 anni fa le donne conquistarono il diritto al voto. Ora vorremmo anche quello di lasciare il fidanzato senza rischiare di morire ammazzate”.

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