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Gisèle Pelicot e la banalità del male

Gisèle Pelicot e la banalità del male

Manon Garcia riflette sulle implicazioni del processo agli stupratori di Gisèle Pelicot. Caroline Darian racconta come lei e la sua famiglia hanno affrontato la scoperta delle violenze agite da suo padre.

Lunedi, 06/10/2025 - «Bisogna amare molto gli uomini. Molto, molto. Amarli perché ci piacciano. Altrimenti, non è possibile, sono insopportabili». Si apre con questa citazione di Marguerite Duras il libro di Manon Garcia Vivere con gli uomini. Che cosa ci insegna il caso Pelicot (Einaudi, 2025 - titolo originale Vivre avec les hommes). Una citazione adatta per iniziare il racconto del processo all’uomo che ha drogato e usato sua moglie come oggetto sessuale, mettendola a disposizione di altri uomini affinché la stuprassero da incosciente.
Manon Garcia, filosofa francese, specializzata in filosofia politica, femminista e morale, attualmente insegna alla Freie Universität di Berlino, ed è già autrice di 'On ne naît pas soumise, on le devient' (ed. it. Sottomessa non si nasce, lo si diventa, Nottetempo, 2023) e 'La Conversation des sexes: Philosophie du consentement' (ed. it. Di cosa parliamo quando parliamo di consenso, Einaudi, 2022). Garcia ha seguito il processo penale che si è svolto ad Avignone nei confronti del marito di Gisèle Pelicot e dei suoi cinquanta stupratori identificati. Un tribunale affollato da donne, questo è il primo elemento che rileva Garcia, donne che da ogni parte arrivano all’alba per fare la fila e riuscire ad entrare nella piccola aula riservata al pubblico, così offrendo il loro supporto morale e fisico ad un’altra donna, Gisèle, che ha avuto l’immenso coraggio di consentire un processo per stupro a porte aperte. Ad un certo punto Garcia vede arrivare anche gruppi di uomini. Cosa sono venuti a fare? Forse per la curiosità di vedere i video degli stupri agiti contro Gisèle? Forse qualcuno sì. Ma poi Garcia capisce che la maggior parte di loro è imputata in quel processo, perché a parte il marito di Gisèle molti altri imputati assistono liberi al loro giudizio.
Liberi. Gisèle lo sarà mai più?
Manon Garcia è esperta dei concetti di «sottomissione» e di «consenso», perciò vede la storia di Gisèle come «un’infinita declinazione di tutte le questioni che mi appassionano da una quindicina d’anni». Ma c’è qualcosa di più in questa circostanza, in questa indagine sul campo: «Sperimento una solidarietà che non è né astratta né immediatamente politica: al di là della questione di sapere se Dominique Pelicot è o non è un mostro, se Gisèle sospettava o meno qualcosa, se quegli altri uomini sono o non sono degli uomini comuni, stamattina vedo che questo processo scuote qualcosa in noi, noi che aspettiamo tutte insieme. Siamo emozionatissime nel vedere arrivare Gisèle Pelicot, affiancata dai suoi due avvocati che sembrano proteggerla dalla violenza del mondo, accolta ogni mattina e ogni sera da applausi. In questo atrio di tribunale, l’idea di un “tutte noi” ha un che di palpabile, di concreto».
“Tutte noi”. Quella sorellanza che tanto era forte negli anni Sessanta e Settanta e che tanto si è persa poi, per riemergere brevemente solo in drammatiche circostanze. Senza dubbio quel “tutte noi” è una premessa indispensabile per la libertà femminile nel mondo in cui viviamo.

La tesi di fondo del libro di Manon Garcia è che proprio questo grande processo dimostra il fallimento del sistema giudiziario. Se quello che è accaduto è accaduto, se gli uomini stupratori negano i fatti anche di fronte all’evidenza dei video e non sembrano provare vergogna per ciò che hanno fatto, se i loro avvocati continuano serenamente a deresponsabilizzare le loro azioni – e implicitamente anche il proprio ruolo difensivo -, nessuna punizione che lo Stato comminerà a questi uomini potrà essere sufficiente e adatta a far comprendere loro il disvalore delle proprie azioni, e tantomeno a compensare l’incommensurabile danno subìto da Gisèle. Se nessuno Stato, se nessuna giustizia sarà mai in grado di convincere gli uomini a non violentare le donne, «è possibile vivere con gli uomini. E a quale prezzo?»
Esagerata! Non tutti gli uomini sono così! È l’obiezione automatica che si sente rivolgere una donna che si pone questo interrogativo, o che più in generale parla di violenza maschile contro le donne. Un’obiezione che non ammette replica, perché qualunque replica si provi ad opporre non convincerà mai l’interlocutore o, ancora più tristemente, l’interlocutrice che il suo punto di vista è troppo ristretto rispetto alla realtà in cui viviamo.
In questo caso non si tratta solo «di un processo di stupro, ma piuttosto di un processo in cui si concentrano una serie di questioni fondamentali che riguardano i rapporti tra gli uomini e le donne, il male, la violenza, l’incesto, le norme di genere, il potere». «Non si tratta di un processo a un solo uomo, ma a un gruppo di uomini, alcuni dei quali non sono stati identificati e continuano a fare la loro vita. La varietà dei profili, delle età, delle storie degli altri cinquanta imputati terrorizza e pone un quesito: sarebbe dunque vero che il Signor Chiunque stupra di buon grado la donna addormentata del suo vicino se gli viene data l’occasione di farlo?»
Si tratta, insomma, di quella banalità del male di cui parlava Hannah Arendt e con cui Manon Garcia confronta il processo di Avignone: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali». Anche gli imputati di questo processo sono banalissimi uomini della campagna francese, non sono i “mostri” che tanto la cittadinanza si affanna a trovare di fronte ad una violenza o ad un’uccisione. Spoiler: i mostri non esistono. E lo dimostra l’etimologia stessa della parola “mostro”: dal latino “monstrum” significa straordinario, contro natura, “un essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura”. Il “mostro” è insomma altro da noi, diverso da noi, non appartiene all’ordine naturale delle cose del mondo umano, è un’eccezione – magari creata addirittura dal demonio, secondo alcuni -, e perciò la sua esistenza e il suo agito non devono modificare il nostro modo di esistere e di agire, perché ciò che lui fa non dipende da quelle stesse basi culturali su cui noi poggiamo il nostro esistere e agire. Invece, spoiler, i mostri non esistono e la cultura che produce la violenza, e in particolare la violenza maschile contro le donne, è la nostra cultura, gli uomini che violentano le donne sono uomini. Punto. Non uomini particolari, solo uomini. «L’elemento essenziale nella banalità degli imputati, nel fatto che costituiscano un campionario rappresentativo degli uomini della società francese, risiede nella “complicità praticamente onnipresente” degli uomini francesi con il patriarcato. È assolutamente certo che degli uomini sono stati invitati da Dominique Pelicot a fare quello che hanno fatto, senza denunciarlo, che gli uomini che sono andati a casa sua ne hanno parlato ai loro amici, ai loro fratelli. […] Chi sapeva non ha detto niente, chi per un verso o per l’altro è venuto a sapere non ha tentennato nel suo appoggio. Fratellanza anziché giustizia».
Fratellanza in quelle che nella vulgata comune sono “goliardate” tra uomini. Tutto nel nostro linguaggio comune viene classificato come “goliardata” se a commetterlo è un uomo: dal fischio per strada, alla pacca sul sedere, allo stupro, allo stupro mediante sedazione chimica. Nessuna vergogna, nessun disvalore viene percepito in queste azioni da chi le agisce, e spesso neanche da chi ne è spettatore. Garcia evidenzia, infatti, che «chiedere agli uomini di vergognarsi non significa pretendere che vadano in un campo di rieducazione femminista, ma di sentirsi implicati in quella maschilità che calpesta tutti. Dominique Pelicot diceva a uno dei suoi coimputati: “Anche a te, dài, piace la modalità stupro”. Il punto è proprio chiedersi cosa abbia a che vedere “la modalità stupro” con il fatto di essere un uomo, uno vero. Non fare più gli spacconi, non individuare più come fonte di orgoglio l’assenza di introspezione, il diritto all’errore e alla violenza, ma capire invece che quel tipo di maschilità, e la fierezza che la struttura, sono indissociabilmente legate allo stupro e a un ordine sociale che nessuno dovrebbe desiderare».

Il marito di Gisèle Pelicot non è un mostro, è un uomo. Questo diventa evidente nel racconto di Caroline Darian, la figlia di Gisèle, che nel suo libro E ho smesso di chiamarti papà (De Agostini, 2025 - titolo originale Et j’ai cessé de t’appeler papa. Quand la soumission chimique frappe une famille) - pubblicato prima del processo - racconta la propria incredulità di fronte alla spiegazione fornita dalla Polizia a tutti i problemi di cui sua madre soffriva da anni: incoscienza, vuoti di memoria, perdita di peso, misteriosi problemi ginecologici. Caroline racconta il momento in cui la sua vita ordinaria e finanche noiosa ha smesso per sempre di esserlo, racconta il peso di un doppio fardello - «sono la figlia della vittima, ma sono anche la figlia del suo carnefice» -, racconta il rimorso per non aver mai sospettato nulla, per non aver saputo correttamente interpretare le anomalie nella salute di sua madre, racconta l’orrore nello scoprire il linguaggio con cui suo padre parlava con gli altri uomini di sua madre come oggetto sessuale, racconta la sofferenza che scaturisce dai ricordi di momenti di vita trascorsi con suo padre nella consapevolezza che in quegli stessi momenti lui drogava e faceva abusare sua madre. «Il lato oscuro di mio padre ha sporcato tutto, violentato tutto. Impossibile guardare una foto spensierata della nostra famiglia senza pensare alla manipolazione e all’inganno che nasconde». Caroline racconta poi lo sconcerto che aumenta in modo indescrivibile di fronte alle fotografie che ritraggono anche lei stessa incosciente, in un letto che è il suo, con della biancheria intima che non è la sua. Anche lei ha avuto per un certo periodo degli inspiegabili problemi ginecologici. Cosa vuol dire? Anche lei ha subìto ciò che ha subìto sua madre? La banalità del male agito da suo padre è arrivata a tanto? È arrivata anche alle sue cognate? La giudice istruttrice del processo ha ritenuto di non includere Caroline e le sue cognate come persone offese delle violenze sessuali in questo processo, ma solo per il reato di diffusione illecita di immagini sessualmente esplicite. «Mio padre è un criminale e io dovrò imparare a convivere con questa brutale realtà. Accettare di esistere così, lacerata tra il bisogno di giustizia, di verità, e quell’amore che un tempo provavo per lui».
È un libro difficile da leggere, quello di Caroline, nauseante a tratti per quanta malvagità racconta. Una malvagità apparentemente disumana, eppure precisamente umana. Una disumanità compiuta dal classico “buon padre di famiglia” tanto amato in Italia. Spoiler anche qui: la Francia ha da anni cancellato la figura del “buon padre di famiglia” dal proprio diritto, mentre l’Italia si guarda bene dal farlo, alla faccia di chi ha la sfrontatezza di dire che il patriarcato non esiste.

Il tema del consenso è centrale nella riflessione della filosofa Manon Garcia, consenso che deve essere alla base di ogni discorso sulla violenza sessuale nei confronti delle donne. Nel processo di Avignone l’indagine sul consenso della vittima è costante – nonostante il concetto di consenso non faccia parte della definizione legale di violenza sessuale -, e la risposta è costantemente no, Gisèle non era consenziente, non poteva esserlo. E di fronte all’inevitabile “no, Gisèle non era consenziente” degli imputati, il giudice interroga: «Non si è fatto delle domande?» Risposta di un imputato: «No, ma io a quell’epoca non sapevo che cos’era il consenso». Ecco, quindi, la banalità del male. Se un gruppo di uomini qualunque accetta eccitato la possibilità di abusare sessualmente di una donna incosciente, come siamo stati cresciuti e cresciute? Cosa ci hanno insegnato sui rapporti tra uomini e donne? Dov’è il mostro? Solo nella nostra immaginazione. La realtà non ha bisogno del demonio, sono più che sufficienti gli esseri umani. «Tutti loro sapevano – e i video lo testimoniano – che lei non doveva svegliarsi. Non possiamo avere la certezza che se lo siano detto in questi termini e in modo consapevole, ma l’enorme cautela con cui agivano per non svegliarla, la preoccupazione a ogni suo minimo movimento, dimostrano che erano ben consci di fare qualcosa su cui lei, se avesse ripreso i sensi, non sarebbe stata d’accordo. Insomma, non c’è il minimo dubbio che sapessero di fare qualcosa di vietato». Questi uomini volevano stuprare una donna. Punto. Molto banale anche questo.
Il consenso è e deve essere il presupposto di ogni atto sessuale – di ogni atto in generale, a dire il vero -, e una donna incosciente non può esprimere alcun consenso né alcuna opposizione. E allora come mai, viene da chiedersi, nei tribunali italiani una donna ubriaca è considerata consenziente? Come può una donna ubriaca, che il giorno dopo non ricorderà neanche quella circostanza, esprimere un valido e libero consenso?
Conclude sul punto Manon Garcia: «Questo processo ha funzionato in maniera ottimale, poiché i giudici hanno manifestato una comprensione chiara e precisa di cosa sia il consenso sessuale e del ruolo che svolge la ricerca dello stesso al fine di stabilire l’elemento materiale e l’aspetto intenzionale dello stupro. In nessun momento hanno ritenuto che Gisèle Pelicot fosse consenziente. Il problema non è dunque che i giudici o la legge non tengono conto del consenso, ma piuttosto che gli uomini interrogati in queste sedi non hanno chiaro cosa sia, e ritengono comunque di potersi esimere dal chiederlo se non corrono il rischio di essere scoperti. Si tratta pertanto di un problema sociale, che non verrà risolto con un colpo di bacchetta magica da una nuova legge».
Ed eccolo il nucleo del problema: la violenza maschile contro le donne non troverà mai la sua soluzione nella legge, e propagandare il contrario significa non aver capito di cosa stiamo parlando; la violenza maschile contro le donne potrà trovare la sua fine solo nella cultura, in un profondo cambiamento culturale che coinvolga tutti, uomini e donne, che abbatta quella che Manon Garcia chiama «impalcatura culturale dello stupro». Questo cambiamento culturale purtroppo non sembra essere all’orizzonte, e il fatto che tanti ignoranti o in mala fede propagandino che il problema non esiste, e che laddove esiste sia opera di “mostri” è prova del fatto che l’orizzonte è pessimo.

Nonostante tutto ciò che è accaduto, Caroline racconta che sua madre Gisèle – dopo una lunga fase di incredulità e perfino di negazione nei confronti di ciò che di suo marito le veniva detto - è stata ammirevolmente capace di iniziare una nuova vita, di chiudere i conti con i cinquant’anni del suo matrimonio, di svuotare la casa che aveva condiviso con suo marito e che era diventata teatro delle violenze cui è stata sottoposta, di trasferirsi in una nuova città e in una nuova casa, di riprendere a guidare, di conoscere persone nuove, di riprendere a fare sport, senza abbattersi neanche quando ha saputo che uno dei suoi stupratori è sieropositivo, decidendo di rendere pubblico il processo ai suoi stupratori per esporli allo sguardo e al giudizio della collettività, per fare in modo che la vergogna cambi lato. Gisèle ha fatto tutto questo seguendo con fiducia il suo personalissimo mantra: «Continua a credere nella vita e nelle cose migliori che ha in serbo per te».

«La violenza sessuale è una violenza degli uomini commessa per esercitare il loro dominio». Oltre a quello del consenso, altro tema su cui Manon Garcia si sofferma è la sottomissione delle donne agli uomini. Lo spunto viene proprio dal movente che Dominique Pelicot ha riferito per spiegare le sue azioni: «Era totalmente diversa da mia madre, era un’indomabile ribelle». Ecco allora un punto fondamentale nella storia della violenza maschile contro le donne, il movente alla base della violenza: rimettere le donne al “loro posto”. Fintanto che una donna si sottomette volontariamente alle imposizioni dell’uomo di turno, questo non avrà motivo di lamentarsi e quindi di agire violenza contro di lei; il problema sorge proprio quando lei non corrisponde all’immagine che l’uomo ha della donna e della sua donna in particolare. «In tale contesto, risulta inequivocabile il legame esistente tra sottomissione come norma sociale della femminilità e sottomissione sessuale. […] Dominique Pelicot concepisce la totale sottomissione sessuale che ottiene dalla moglie attraverso la sottomissione chimica come un mezzo per ottenere da lei quella condizione di cui si sente ingiustamente privato nella quotidianità. In mancanza di una sottomissione consenziente da parte della moglie, decide di ottenere chimicamente il suo totale abbandono». Lo strumento della sottomissione chimica è quindi un mezzo razionalmente scelto per raggiungere il proprio obiettivo di dominazione. Si tratta, ovviamente, di una reificazione della donna, ridotta al suo solo corpo, privata di personalità e coscienza. «Invece di erotizzare la violenza bisognerebbe erotizzare la parità».

Caroline Darian, dopo ciò che ha scoperto e vissuto, si è impegnata attivamente per far conoscere la realtà e gli effetti della sottomissione chimica in Francia, fenomeno ancora poco indagato eppure diffuso. È una forma assai subdola di violenza quella della sottomissione chimica, perché difficilmente le vittime si rendono conto di ciò che accade e perciò non hanno la possibilità né di ribellarsi né di impedirlo; inoltre i problemi fisici che inevitabilmente derivano dalla somministrazione delle sostanze saranno difficilmente interpretabili dai medici, dato che i sintomi non coincideranno mai con le abitudini dichiarate dalla donna, che quindi risulterà anche poco credibile, la solita “isterica”. Ne viene fuori una manipolazione assoluta, che distrugge fisicamente e psicologicamente la vittima pian piano.
Caroline ha investito il proprio impegno pubblico in un movimento di sensibilizzazione e di prevenzione chiamato #MendorsPas: Stop à la Soumission chimique (#NonMiAddormentare: Fermiamo la sottomissione chimica); l’associazione chiede lo sviluppo di un adeguato programma di formazione per i professionisti sanitari, e la creazione di un gruppo di lavoro interministeriale volto a migliorare il circuito di supporto alle vittime. «È per me l’inizio di una nuova battaglia: voglio andare oltre la mia vicenda familiare, voglio dare voce a tutte le vittime che restano ancora invisibili».

Manon Garcia, alla fine del suo libro, torna a riflettere sulla citazione di Marguerite Duras da cui è partita – bisogna amare davvero molto gli uomini per continuare a vivere con loro, nonostante tutto -, e si rende conto di aver sbagliato punto di vista. La cultura patriarcale in cui viviamo impedisce agli uomini di considerare le donne come soggetti con personalità, emozioni e desideri, sono educati a vederci solo come corpi, come oggetti a disposizione, e questo diventa paradossalmente più grave e pervasivo oggi con il mondo della pornografia online, che insegna esclusivamente il dominio sessuale e non la relazione sessuale. «Credo che in parte spetti a noi chiederci se dovremmo davvero amare gli uomini così come li amiamo, ma inizio a credere che dovrebbero essere loro ad amare un po’ le donne. Non tanto, almeno un po’. Ad amare noi, per far sì che si possa continuare ad amarli».

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