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Il reato di violenza sessuale tra sentenze criticate e modifiche auspicate

Il reato di violenza sessuale tra sentenze criticate e modifiche auspicate

Da una recente pronuncia giudiziaria si origina una riflessione sull'opportunità di modificare l'art. 609-bis c. p., ossia il reato di violenza sessuale.

Lunedi, 20/10/2014 - Smorzate le polemiche iniziali e silenziati gli echi delle proteste immediatamente successive alla sentenza della Cassazione, di conferma teorica del diritto alla concessione dell’attenuante a chi venga riconosciuto colpevole del reato di violenza sessuale, varrebbe la pena di collocare tale pronuncia giudiziaria in un quadro, per così dire, di sistema. Acclarato che la Suprema Corte non deliberi sui fatti criminosi ma sulla conformità normativa delle correlate sentenze, l’indignazione conseguente alla suindicata decisione dovrebbe essere indirizzata ad obiettivi più congrui ed opportuni.

Preliminare a questa impostazione è, però, un breve cenno storico sul reato previsto dall’art. 609-bis c. p. , ossia sul reato di violenza sessuale. Allorchè, sull’onda delle battaglie ideali condotte dal movimento femminista negli anni ’70 ed ’80, si giunse alla legge 66/1996 di modifica dello stupro da reato contro la morale a crimine contro la persona, si aggiunse al codice penale l’articolo suindicato, con un’operazione che alla lunga si è rilevata alquanto frettolosa. Difatti, prima del nuovo ambito normativo erano previsti due distinti reati, la violenza carnale ( art. 519 c.p.) e gli atti di libidine violenti (art. 521 c.p.), prevedendo per le due diverse fattispecie criminose altrettanto diversificate sanzioni. L’art. 609-bis, invece, comprende indistintamente al suo interno le varie tipologie di condotte criminali, con la conseguenza che il legislatore ha dovuto predisporre la possibilità di concessione dell’attenuante per le forme più lievi di violenza, come ad esempio gli atti di libidine o le violenze non culminanti con la congiunzione carnale. Il risvolto pratico della medaglia di tale assetto normativo è stato purtroppo diverso, perchè anche chi venga condannato per stupro può vedersi comminata una pena ridotta rispetto a quella edittale, qualora vengano riconosciute in sede processuale circostanze che attenuino la sua condotta delittuosa.

La Cassazione con la sua recente sentenza ha stabilito che i giudici di 1° e 2° della controversia di specie non avessero congruamente motivato l’assenza dei presupposti idonei alla richiesta della diminuzione della sanzione, stabilendo che in tale direzione si dovesse avere riguardo «ai fini della concedibilità dell’attenuante ad una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la `ratio´ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici». Certo, è indubbio che nel conseguente procedimento di rinvio il giudice naturale potrebbe egualmente non riconoscere i presupposti per la concessione al reo dell’attenuante, questa volta motivandoli, come altrettanto indubbio è che possa decidere al contrario. Questo è il punto dirimente perchè, allorchè si ritornò a giudicare il caso oggetto della rinomata pronuncia della Cassazione denominata “sentenza dei jeans” (statuente che ove la donna stuprata indossasse tale capo d’abbigliamento non potesse dirsi vittima di violenza sessuale perchè occorreva la sua collaborazione per abbassarli), il colpevole fu assolto.

La recente sentenza della Suprema Corte, collegando la richiesta di attenuante all’accertamento delle conseguenze psicologiche dello stupro nonchè del suo “grado di coartazione esercitato sulla vittima”, sarebbe alquanto deleteria ove aprisse per la donna violentata scenari di indagini particolari sulla sua condizione mentale, ispezioni corporali, perizie mediche ed altro ancora, indubbiamente ipotesi poco confacenti all’equilibrio di una persona che cerchi di superare il dramma occorsole. Appare, quindi, più che necessaria una rivisitazione dell’art. 609-bis, che vada nella direzione di negare attenuanti a chi costringe volontariamente una donna a subire un rapporto sessuale completo. Una norma di principio nuova, a mo’ di operazione preventiva di carattere culturale, più che consona ai tempi attuali. Se a seguito del decreto-legge 119/2013, finalizzato a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking), ai colpevoli vengono inasprite le pene quando, ad esempio, il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner, non si comprende il motivo per il quale nel caso di reato di stupro nei riguardi della moglie, come nel caso di specie, non possano essere annullate le attenuanti.

Tale opzione normativa è certamente una scelta politica, ma se lo è stata per il suindicato decreto, meglio conosciuto come “dl sul femminicidio” per l’enfasi mediatica attribuitagli dai rappresentanti istituzionali, non si intravedono puntuali motivazioni per escludere tale scelta anche per la violenza sessuale. Le norme, le regole, sono originate dalla necessità di proteggere il soggetto più debole dai soprusi di cui potrebbe essere vittima e, conseguentemente, sarebbe più che opportuno riconoscere, una volta per tutte, alla donna stuprata tale tutela. Un impegno siffatto dovrebbe provenire da chi per ruolo sia deputato ad aggiornare le norme alla luce delle istanze sociali che ne richiedono modifiche. Il tempo è giusto ed altrettanto deve essere la giustizia verso le vittime di violenza sessuata, perchè succeda sempre meno che la paura del processo le sovrasti e sempre più che la certezza della pena le induca alla denuncia dei loro aguzzini.

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