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Incontro con Laura Paggini:

Incontro con Laura Paggini: "scrivere vuol dire incontrare e incontrarsi”

Laura Paggini, “Scrivere è comunicare, aprirsi agli altri, dare e ricevere ascolto, trasmettere memoria. Scrivere vuol dire incontrare e incontrarsi”...

Lunedi, 22/09/2014 - Incontro con Laura Paggini : “Scrivere è comunicare, aprirsi agli altri, dare e ricevere ascolto, trasmettere memoria. Scrivere vuol dire incontrare e incontrarsi”

A cura di Alma Daddario



“Vi posso assicurare che quel giorno non lo dimenticherò mai più. Mi ero preparato a vivere un’esperienza unica: la mia prima vacanza senza genitori. Non avrei mai potuto immaginare cosa sarebbe realmente successo. Perché ragazzi, oggi ne sono certo: non è stato un caso. Lui…loro…aspettavano proprio me! Forse non sarò stato il primo, però potrei essere stato l’ultimo…” (dall’incipit di Pesante come una piuma)



Laura Paggini, livornese doc, dopo essersi cimentata in racconti per ragazzi e poesie, ha pubblicato nel 2010 il romanzo “Una gita lunga un giorno”, per il quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti letterari. Questo l’ha incoraggiata a proseguire il suo percorso di scrittrice. E’empatica, attenta e un po’ schiva, come molti scrittori. La incontriamo in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo: Pesante come una piuma, una sorta di viaggio nel tempo, dove il protagonista-bambino vive un’esperienza, legata alle vicende più crude della nostra storia recente, che gli cambierà per sempre la vita, facendone un “cavaliere della memoria” votato a non far dimenticare il valore universale della pace.



Quando si è accorta che avrebbe voluto fare la scrittrice?

Quando ho accettato la proposta di pubblicare il mio primo romanzo, superando reticenze e timori dovuti al fatto di aver vissuto sino ad allora la mia passione per la scrittura come uno stato di grazia intimo e riservato. Andando indietro nella memoria ricordo di aver scritto da sempre. Scrivere produceva in me un effetto fortemente consolatorio. La mia era una famiglia senza favole e io me le creavo; non osavo lanciare schiaffi o abbracciare teneramente, e allora scrivevo. Pagine e pagine per prendermi cura di me stessa, conoscermi meglio e giocare, magari a costruire montagne da scalare e scivoli nell’acqua per discendere senza farmi troppo male. Poi il gioco è stato condiviso, quando mi sono divertita a leggere a mio figlio storie e filastrocche che scrivevo per lui. E infine è arrivato il mio primo romanzo e, vinto l’iniziale senso di imbarazzo, ho apprezzato sempre più la nascente consapevolezza che scrivere sia comunicare, aprirsi agli altri e rimanere poi in ascolto. Il cerchio vizioso nel quale mi ero chiusa da sempre si è trasformato così nel cerchio magico della comunicazione. In uno sguardo che si accende, ad esempio durante una presentazione, io vivo l’incontro di due cuori. Da allora mi sono detta: voglio continuare a scrivere per incontrare. In questo si traduce il mio fare la scrittrice.



Ha avuto autori-miti di riferimento nella sua infanzia?

Da bambina ho letto tutti i libri che comperava mia sorella, maggiore di me di dieci anni; lei li collezionava e io li divoravo. Erano romanzi molto più grandi di me; mi affascinavano le atmosfere, certi personaggi, ma non era possibile andare oltre. Il primo libro tutto per me, ricordo, è stato Mary Poppins, ma, per quanto carino, non fu un mito. Mi era piaciuta di più Lady Chatterley!



C’è un genere letterario in cui si riconosce?

Ultimamente mi sembra ci sia stata un’esondazione di generi. Forse la farò ridere, ma mi è capitato di rinunciare ad inviare un mio lavoro ad un concorso proprio perché non riuscivo ad individuare il genere nel quale iscriverlo o “impacchettarlo”. Un romanzo spesso è come una persona che non è mai solo questo o quello. È però vero che il libro ormai è sempre più un prodotto commerciale e quindi va catalogato, salvo poi scoprire che, come l’aceto, non è detto che debba trovarsi solo fra i prodotti alimentari.



È vero che uno scrittore scrive sempre di se stesso?

È vero nella misura in cui ogni scrittore scrive sempre con se stesso. Il suo primo strumento non è la tastiera del computer o la penna, è la sua anima. Così, quand’anche sembra che parli di altro o di altri, in realtà quella è la sua storia, che lo fa piangere e ridere mentre si dipana davanti ai suoi occhi e si sente vecchio e bambino, uomo e donna come solo lui può sentirsi. Alla fine, scrittore e storia si appartengono l’un l’altra indissolubilmente, e questa appartenenza rende quel momento un vissuto personalissimo unico e irripetibile.



Quanto c'è di storicamente vero, e quanto di fiction, in 'Pesante come una piuma'?

'Pesante come una piuma' nasce dall’incontro di due realtà: il ricordo piacevole della prima vacanza “da grande” di mio figlio, ospite insieme agli amici della parrocchia in un vecchio seminario vescovile, e la successiva scoperta che quel luogo era stato adibito nel 1943 a campo di concentramento per famiglie ebree. Una scoperta sempre più sconcertante, mano a mano che sono riuscita a reperire la documentazione che mi ha permesso di ricostruire gli eventi specifici che la caratterizzarono. Attraverso quelle carte ingiallite e dimenticate ho conosciuto bambini che hanno dormito e giocato nelle stesse camere dove ha dormito e giocato mio figlio. Bambini che sono stati ingannati due volte: accolti in un luogo dove era stata loro garantita protezione, sono stati invece deportati nei campi di sterminio e poi volutamente dimenticati. Allora ho immaginato che mio figlio partisse di nuovo per vivere con loro l’inverno del 1943; per restituire, lui bambino di oggi, libero di farsi tutte le domande che vuole, almeno la memoria che meritano e magari presentarli a nuovi amici. La storia del campo è reale, così come lo sono tutti i personaggi citati, chi con il proprio nome, chi senza nome nel rispetto di chi è sopravvissuto e si è costruito la propria personale memoria. Anche molte situazioni sono vere e documentate. I giochi e i discorsi dei bambini invece sono frutto di fantasia. Prendono spunto dal mio voler credere che i bambini, che sanno vivere di presente e di fiducia, siano tali ovunque si trovino, anche in un campo di concentramento.



È vero secondo lei che uno scrittore, grazie all’intertestualità, come diceva Balzac, è in grado di prevedere gli avvenimenti?

Per rispondere dovrei premettere che secondo me c’è una profonda differenza tra lo scrittore e l’intellettuale capace di una visione illuminata e distaccata delle cose. Ed è vero, secondo me, che questa sua visione lungimirante e scevra di emozioni, pienamente consapevole dei processi di trasformazione, gli permette di influenzare il proprio tempo e prevedere gli eventi. Quando gli intellettuali fanno sentire più forte la loro voce, proprio come sta accadendo adesso, dovremmo accogliere il loro monito e fermarci a riflettere.



Uno scrittore, o un intellettuale, deve essere necessariamente coinvolto nelle vicende storico-sociali della sua epoca?

Penso che non ne possa fare a meno. In quanto persona, è figlio della società in cui vive; in quanto persona vogliosa di comunicare, alla fine non può che parlare di e al mondo in cui vive, con quella distinzione però che ho detto prima. Tuttavia, seppure in una visione soggettiva, emotiva delle cose, penso che anche le situazioni di cui lo scrittore narra si intreccino con una realtà ben più grande di quella dei singoli personaggi e, seppure in modo trasversale e spesso sommesso, esprima opinioni che potremmo definire politiche pur non esercitando la politica.



Quanto è stato difficile, nel suo ultimo romanzo, scrivere dal punto di vista di un bambino?

Una domanda simile, a dire la verità, me la sono posta anche io: mi sono chiesta se davvero fossi riuscita ad interpretare il sentire di un bambino. Non lo so. Quello che so è che non ho vissuto alcuna difficoltà. È come se il romanzo si fosse scritto da solo e mi sono sentita bambina in mezzo ad altri bambini. Io li vedevo attorno a me e non dovevo abbassare la testa per guardarli negli occhi.



Cos’è per lei l’ispirazione, e in che momento… arriva?

La avverto all’improvviso, come qualcosa che mi punge dentro e mi rende impossibile, o estremamente faticoso se costretta, il fare altro. Talvolta arriva nel sonno e devo necessariamente alzarmi dal letto, o mi sorprende al mattino, mentre mi sto preparando per andare al lavoro. È come se fosse un’entità autonoma e non è raro il caso in cui io per prima mi sorprenda di quello che inizio a scrivere, salvo poi capire, mano a mano, che l’ispirazione non è altro che un piccolo velo che si apre su una vita interiore spesso sacrificata da tempi e modi non voluti, e che all’improvviso reclama le attenzioni che merita. L’ispirazione è la mia “pillola della felicità”.



E cos’è per lei la “visione laterale” delle cose?

È la messa a fuoco che più si avvicina alla realtà delle cose. Penso che ogni cosa abbia uno spessore, tante sfaccettature, uno spazio e un tempo in cui si distende. Fermarsi alla sua immagine fotografica è appiattirla in un’apparenza che non solo la limita, spesso la trasfigura.



Tutti gli scrittori hanno un tic, una mania, riti scaramantici prima di accingersi a scrivere. Lei ne ha?

R - No, sono certa di non perpetrare alcun rito scaramantico. Io mi siedo sul divano, faccio segno alla mia canina di distendersi accanto a me, sulla destra fra me e il bracciolo, sistemo accuratamente il portacenere e accendo una sigaretta. Poi mi volto verso la finestra alla mia sinistra, sempre aperta anche d’inverno, e guardo il cielo. Inspiro forte e appoggio la sigaretta, carezzo la mia bimbina pelosa e inizio a scrivere… no, come vede, nessun rito…



Progetti futuri?

Mi piacerebbe condividere un romanzo che ho scritto prendendo spunto dalle confidenze di amiche e da situazioni reali, nonché dalla mia convinzione che le nostre azioni ci sopravvivano e segnino inesorabilmente il destino di chi ha camminato un tratto della propria strada insieme a noi. È la storia di varie persone, donne, uomini e un bambino, che si intreccia attorno a quella di un uomo che, come tutti, ha camminato per viottoli, fra buche e sassi, ma ha scelto di fare di quei sassi un’arma. Tra i miei progetti occupa un posto altrettanto importante terminare il romanzo in corso, costituito di tre racconti lunghi ambientati in quelle che negli anni Settanta furono definite le istituzioni totali: carcere, manicomio e famiglia. Il filo conduttore di ogni storia è la necessità prepotente e spesso repressa di comunicare e il potere magico che in questo gioca la musica. Sia nel romanzo già scritto che in quest’ultimo, nonostante parli di vite difficili, non si perde mai di vista la speranza e la forza che sa alimentare l’animo, quando diventa convinzione. E visto che parliamo di speranza, una piccola per un progetto piccolo: riuscire a regalarmi qualche viaggetto: tanto per scoprire e respirare cosa c’è al di là del mio naso. Sino ad ora non ho avuto tempo per farlo…

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