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Io, italiana, migrante in Patria

Io, italiana, migrante in Patria

Intervista a Silvia Layla Olivetti, da dieci anni convertita all'Islam. Come cambia la vita con un metro di stoffa sui capelli

Lunedi, 04/06/2012 - Si può essere Pellegrina e Straniera anche a casa propria. Silvia è migrante in patria, stretta tra tradizioni familiari e nuova identità. Una sensazione di sperdimento e lacerazione spesso insostenibile. Scrittrice, 38 anni con tre figli, vive a Venezia e indossa il velo. Si è convertita all’Islam dieci anni fa e da quel momento il suo rapporto con gli altri è cambiato. <<Per strada si girano quasi a non volermi vedere. Pensavo fossero miei amici e invece è bastato un metro di stoffa sulla testa per non essere più io, è assurdo. C’è un conformismo che non permette scarti. Il nostro è il paese delle ipocrisie dove la verità non si deve dire. Pubblicamente dovrei girare senza velo e pregare in privato. E’ la società stessa a chiedermelo>>. La madre di Silvia è una femminista che ha fatto il ’68. A casa ci sono le foto dei cortei, donne in minigonna e falò di reggiseni. Immagini in bianco e nero che scandiscono l’alba dell’autonomia femminile, una promessa di libertà con cui oggi è costretta a fare i conti: << Mia madre è stata la prima ad avversarmi. Eppure se non fosse stato per l’apertura mentale e la cultura respirata in casa non sarei arrivata a tanto. Io sono quella che ha maggiormente beneficiato del femminismo, quel femminismo che ha cercato di liberare la donna dai cliché. E’ grazie a quella rivoluzione che oggi posso scegliere. E scelgo di coprirmi>>. Portare il velo come fattore di resistenza e scelta di libertà, anticorpi che Silvia ha respirato fin da piccola: <<Le donne hanno lottato per i propri diritti, per scardinare il conformismo, per non permettere a un gruppo sociale di decidere per loro. Oggi quelle stesse donne inciampano nei propri piedi. C’è una violenza sociale che identifica il velo come sottomissione al maschio, all’Islam o come simbolo di terrorismo. La discriminazione in Italia è palpabile, il valore della persona viene misurato da simboli esteriori. Io parlo quattro lingue e ho sempre lavorato nelle reception dei grandi alberghi ma da quando indosso l’hijab non ho più le stesse chances. Eppure sono convinta che la diversità e il dissenso siano valori fondativi per l’individuo e la politica. Io credo nel pluralismo e se mi chiedono di togliere il velo tremo, perché un giorno potrebbero chiedere a qualcun'altra di non si indossare più la minigonna>>. Per lottare contro le discriminazioni Silvia Layla Olivetti ha fondato un movimento per la tutela dei diritti dei musulmani. Riceve telefonate minatorie e aggressioni verbali. Non ama il termine convertita, preferisce: “ritornata all’Islam”, da italiana si sente sospesa, un po’ apolide e un po’ cittadina: “Culturalmente le migranti maghrebine hanno più libertà di me. Nessuno si meraviglia se un’araba porta il velo ma se lo indosso io vengo guardata con sospetto. Il contesto sociale in cui vivo non mi permette di essere pienamente me stessa. Provo una condizione di anomia, non sono più com’ero ma non sono ancora come vorrei essere. Mi sento straniera in patria. Cerco di integrare i due aspetti, è un lavoro faticoso che comporta un continuo processo di sottrazione, sia come italiana che come musulmana>>.

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