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La storia che chiede salvezza. 'Dove non mi ha portata', il libro di Maria Grazia Calandrone

La storia che chiede salvezza. 'Dove non mi ha portata', il libro di Maria Grazia Calandrone

L'autrice ricostruisce i passi compiuti nel 1965 dai genitori, una donna e un uomo annientati da una società ipocrita e impietosa, prima di metterla in salvo in un parco romano e togliersi la vita

Mercoledi, 28/12/2022 - Quando una persona viene a mancare, spesso alle espressioni di cordoglio si inanellano le testimonianze di chi l’ha vista l’ultima volta, e delle ultime parole scambiate. Quasi che l’aver veduta una persona prima della sua dipartita comprovi il triste avvenimento. E così, tutte quelle immagini, insieme con le frasi pronunciate, compongono un mosaico prezioso per i cari che restano, una sorta di ultimo album dei ricordi da stringere e portarsi dietro. Solitamente, tutto ciò avviene nei giorni immediatamente successivi al decesso.
Maria Grazia Calandrone, invece, compone l’album cinquantasei anni dopo, e lo restituisce attraverso il suo ultimo romanzo, "Dove non mi hai portata", edito da Einaudi, dalla copertina magnifica.
Evidentemente, doveva scorrere un po’ di vita prima che l’autrice riuscisse ad affrontare le ricerche e i loro risultati, doveva arrivare il momento giusto (“Oh, le cose lavorano dentro di noi, che non sappiamo niente”). Il libro infatti si presenta come un’indagine: scoprire come sono andate davvero le cose quando i suoi genitori la lasciarono in un parco romano e si allontanarono per porre fine ai loro giorni. È il 1965. Lucia, la madre, invierà all’ “Unità” una lettera in cui rivelerà l’identità di quella piccola di otto mesi e spiegherà il suo gesto.
Una lettera senza fronzoli, senza accuse verso quella società ipocrita che l’aveva costretta a una scelta estrema, essendo fuggita da un marito violento e avendo accolto l’amore di un uomo già sposato.
Un messaggio asciutto, dove si percepisce che la vita è già scivolata via dalle dita di chi lo scrive.
E asciutto è anche il resoconto di questa inchiesta di Maria Grazia Calandrone che, invece, di vita è impregnata.
Tenaci e delicati i suoi passi da investigatrice, che ripercorrono i primi e gli ultimi giorni della madre, raccogliendo con avidità ogni traccia, ogni voce pronta a ricomporne il ritratto e a renderle giustizia. A essere interrogati sono anche gli archivi, gli esperti, i medici, le autorità, tutti coloro che possono aggiungere un piccolo o grande tassello alla vicenda.
Conosciamo così Lucia bambina, in un rigido paesino della campagna molisana. È lì che la bimba cresce, è tra le pareti di quella fattoria che vive i primi abbandoni, gli impietosi obblighi sociali, e si prepara a diventare “padrona del proprio scomparire”.
L’autrice descrive quegli anni con la precisione di un entomologo: i dettagli degli abiti, le scarpe, le borse, gli oggetti. Che pare di sentirlo addosso il gelo di certi momenti, il dolore “di una figlia abbandonata da genitori vivi”, la crudeltà di un matrimonio imposto a entrambi gli sposi.
“La normalità è solo quello a cui siamo abituati”, e Lucia la subisce, e manda giù, finché può. Sa bene che quel matrimonio è un contratto che la condanna a vita, sa che se fugge sarà inseguita dalla “fiatella sociale” che “imputridisce tutto quello che tocca”.
E Lucia evade dalla dittatura del suo tempo e dalla ferocia di una famiglia che non l’ha saputa proteggere, si innamora di un uomo molto più grande di lei, già sposato, e cerca una nuova vita con lui. I due amanti diventano quindi ricercati: adulterio, abbandono del tetto coniugale.
L’arrivo a Milano di Lucia e Giuseppe ci mostra una città in pieno boom economico, che ha risucchiato una fiumana di immigrati per i nuovi cantieri, e che non ha più posto né per loro né per la loro neonata. Un progetto di vita schiantato, una coppia fuori legge disorientata, la pressione sociale, un orizzonte che si avvicina sempre più, e soffoca.
Una scelta, l’ultima.
L’autrice riannoda tutti i fili, scavalcando l’ottusità di una burocrazia che trattiene cartelle secretate e tenta di sbarrare una strada in cui pure la caparbietà di una figlia riesce a proseguire.
Ed ecco che la vicenda di queste due donne diventa urgenza di trovare la verità, qualunque essa sia: “Questo libro desidera essere opera di trascrizione e testimonianza dell’energia indelebile delle cose. La verità è nei fatti, emancipati dal nostro punto di vista”.
Come siano andate esattamente le cose non è dato sapere, ma forse non ha più importanza. Ciò che conta, è che Maria Grazia sia tornata a prendere Lucia, che la tiri per mano e se la porti via. “Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano”.
È un testo che testimonia di una liberazione reciproca: una figlia e una madre che, ritrovandosi, si liberano a vicenda, in un estremo atto d’amore: “E adesso io prendo te, e ti lascio libera, pure di abbandonarmi”.
Non bisogna farsi trarre in inganno dal titolo: quello che di primo acchito può suonare come un rimprovero, brano dopo brano si mostra quale è: un riconoscimento d’amore.
Il luogo dove la figlia non è stata portata è il buio, la perdita della speranza, la morte. E invece è proprio la speranza l’eredità che questa madre dona alla figlia: di una vita migliore, dignitosa, di una luce che lei sente di non poterle offrire.
“Il suicidio è un eccesso di abbandono”, e quello di un genitore condanna il figlio alla medesima martellante domanda: non sono dunque stato sufficientemente importante per trattenerlo in vita? Questa indagine suggerisce che la verità è molto più complessa di così, occorre liberarsi dalla “forma ustoria di un’assenza” e affrancarsi da quel “mantello pesante dal quale ella (io) si deve una volta per tutte divincolare”.
Attraverso quest’opera, madre e figlia si incontrano, e permettono il passaggio di testimone, disegnano un cerchio luminoso laddove era stata tracciata una rigida semiretta: “Ma non era finita la tua pagina, Lucia, e adesso scrivi, con le mani mie, la vita che hai già scritto co tuo sangue in me”.
E allora non resta che raccogliersi in silenzio davanti a “questa posa di parole come fiori per sempre”, a questa lettera d’amore, lieve, come i passi di una bimba che, dapprima, avanzano con cautela, e poi, riconosciuta la mamma, le saltellano incontro gioiosi.

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