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Milano: madri, rabbia e nonviolenza

Milano: madri, rabbia e nonviolenza

La violenza a Milano ci impone di ragionare sulle pratiche e sul futuro dei movimenti

Domenica, 03/05/2015 -
Toya Graham: il mondo ha bisogno di donne (e in generale di persone) così.

Di donne che pur vivendo condizioni quotidiane di fatica, ingiustizia e pericolo trasformano la rabbia, ampiamente motivata, in costruttività, educazione e solidarietà. Di lei non sapremmo nulla se non fosse per il video girato durante la manifestazione a Baltimora di qualche giorno fa, per l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia.

Toya, madre di sei figlie e di un ragazzo, già nonna, in tv riconosce il figlio Micheal, sedici anni, che tira mattoni vestito di nero e incappucciato. La madre esce da casa di corsa, lo raggiunge, lo prende per le orecchie, lo spinge fuori dalla strada, gli tira due ceffoni quando il ragazzo accenna a tornare sui suoi passi. Alla stampa dichiarerà: ”Lo proteggo, non me lo faccio uccidere”. Toya sa benissimo di cosa parla: lavora in un centro per il recupero dalla tossicodipendenza. Violenza, droga e delinquenza sono gli approdi di molti giovani neri a Baltimora, e lei, descritta dalle colleghe come estroversa e volitiva, vuole dare una lezione a quel ragazzo che ama.

La buona politica è anche questo. Toya non è la prima: nel 2006 un gruppo di donne, molte delle quali madri, sorelle e compagne dei giovani immigrati che stavano dando alle fiamme le banlieu di Parigi scrissero una lettera pubblica contro quella violenza, affermando che distruggere auto, scuole, negozi nei loro quartieri era danneggiare, imbruttire e violare il bene comune. Nel 2001, un mese prima del G8 a Genova, un gruppo di donne con diverse esperienze politiche e di movimento scrissero insieme un documento rivolto ai compagni che teorizzavano la bontà della violenza ‘rivoluzionaria’, affermando che mimare la brutalità del potere in nome di un (presunto) ideale di cambiamento era solo mimesi, non cambiamento.

Fu allora che per la prima volta fu nominata la pornografia in connessione con la globalizzazione: la globalizzazione neoliberista, si disse, riduce l’umano a una sola dimensione, quella di acquirente (chi può), e chi non può è destinato a soccombere, giacchè l’unico spazio possibile è quello del mercato. O compri o scompari.

Se, quindi, il rischio è quello che il mercato diventi l’unico metro regolatore delle relazioni, il salto semantico è con la pornografia, lo spazio nel quale si enfatizza la sessualità genitale, eiaculatoria, spesso violenta, in stretta connessione con il denaro e il potere, che taglia fuori la relazione. Anche Raimo su Internazionale usa la metafora della pornografia (scrive di riot porn) ragionando sulle devastazioni di Milano, e la memoria va all’analisi di Robin Morgan, che nel suo Demone amante – sessualità del terrorismo, decostruisce il tema della violenza, ne svela funzione e moventi, sia nel caso del dominio di stato così come delle fattezze della violenza ‘rivoluzionaria’. Raimo parla di crisi performativa dei movimenti, e ha ragione: quando si cede alla facile giustificazione della rabbia per sfasciare ogni cosa sul proprio cammino (e si minimizza, da parte di chi guarda, la portata del gesto distruttore) vuol dire che si rinuncia alla creatività, alla fantasia, all’empatia, allo studio e alla ricerca di strade alternative di comunicazione delle proprie ragioni, d’inclusione, di consenso e soprattutto si perde irrimediabilmente il senso del proprio agire. Moltissime sono le ragioni di critica a Expò, come moltissime erano quelle fatte al G8 nel 2001. Il risultato delle violenza di allora, come di quelle di ora, è la messa nell’angolo dei contenuti della critica.

Possibile che ancora si conceda credito (e riparo) alle meschine pratiche di chi, senza volto, spacca tutto sulle strade che calpesta?

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