Incipit del romanzo e note biografiche dell'autore del romanzo, secondo classificato dell'edizione 2025 del Premio Letterario Nazionale Clara Sereni
Martedi, 09/12/2025 -
Il rione era una specie di oasi o di carcere, un luogo chiuso, a parte, che escludeva il resto del mondo dalla vita di chi vi era nato o soltanto vi cresceva. Era composto (e forse lo è ancora) di sei grandi blocchi disposti su due file, separati da strade tutte perpendicolari tra loro. Cinque di quei blocchi erano altrettanti isolati, il sesto era un grosso edificio che ospitava un asilo e una scuola elementare, con davanti un vasto spiazzo di cemento interrotto qua e là da qualche misero pezzetto di verde incolto, bruciacchiato, il tutto circondato da un muro alto circa un metro sovrastato da un’inferriata. Da una parte il rione terminava con un minuscolo parco che tutti chiamavano “i giardinetti”, composto da aiuole delimitate da muretti bassi e grigi e contenenti grossi alberi caducifogli, la cui ombra diventava vitale d’estate, specie nelle prime ore del pomeriggio, quando la calura si faceva opprimente. Al centro del parco c’era l’elemento che lo qualificava di più, un campo di basket, che era il vero punto di ritrovo di tutti i ragazzi del posto. Dall’altra parte, quella opposta ai giardinetti, c’era la strada che portava a Gianturco o a Poggioreale, a seconda della direzione. E all’altezza della scuola, ma più esterna rispetto alle due file di isolati, c’era una parrocchia, con annesso un campo di calcio a nove, dove però spesso si giocava anche a undici.
I giovani del quartiere, quando non stavano ai giardinetti, passavano il loro tempo a girare intorno a tre grossi isolati messi in fila, ognuno dei quali formato dai sei agli otto palazzi, da qualche spazio per il parcheggio delle auto e in certi casi anche da una piccola area verde interna. Quegli isolati erano come dei grossi pezzi di cemento compatti, dei monoliti massicci, grigi e tristi, che contenevano centinaia, forse migliaia di persone ciascuno e che i ragazzi, camminando, si lasciavano scivolare di lato, dandoli per scontati.
E per scontato davano anche don Aniello, un inquilino del secondo piano dell’isolato 44, che stava sempre affacciato, al balcone d’estate, dietro una finestra d’inverno, e che spesso da lassù salutava i ragazzi che passavano e ripassavano sotto di lui.
«Buongiorno, guagliù!», urlava, e loro rispondevano al saluto con un altro «Buongiorno» e un’alzata delle mani.
Era un’istituzione, don Aniello, una presenza fissa, che non spariva mai. Sembrava inchiodato in quella postazione e qualcuno dei ragazzi si era spinto finanche a ipotizzare – non si sa bene fino a che punto sapendo di esagerare – che lui rimanesse seduto lì anche di notte, perché non dormiva mai.
Quando la domenica mattina si organizzava una partita ai giardinetti, su quello che – come detto – era un campo di basket ma dove si disputavano quasi esclusivamente partite di calcetto, e il pomeriggio avrebbe giocato il Napoli, quella partita diventava una sorta di anticipazione dell’incontro di serie A che si sarebbe disputato da lì a qualche ora. Una squadra, sempre la più forte, quella capitanata da Giulio, considerato all’unanimità il migliore del quartiere, faceva la parte del Napoli, l’altra era la squadra avversaria. Quella domenica ci sarebbe stata Napoli-Roma e perciò anche chi non era stato scelto da Giulio al momento della composizione delle squadre era moderatamente contento, perché la Roma era una di quelle compagini forti, di cui si conoscevano quasi tutti i calciatori e nella quale, perciò, non era un disonore militare. I capitani erano i due giocatori migliori: Giulio sempre, se c’era, e un altro che poteva variare in base ai presenti o alla forma fisica del momento in cui si trovavano i ragazzi. Quella mattina toccò a Giulio e a Luigi fare le squadre e Giulio in automatico si prese in Napoli. A Luigi rimase la Roma, ma questo era assodato. Si giocava cinque contro cinque, col portiere volante, e le porte erano i due sostegni metallici che reggevano i canestri. Per l’altezza delle porte non c’erano punti di riferimento precisi, si andava a occhio, e questo era motivo di dispute infinite, che spesso si risolvevano con un calcio di rigore assegnato alla squadra che reclamava un gol che invece i giocatori avversari non erano per nulla disposti a concedere. Si cominciava a discutere, chi diceva che il tiro era stato troppo alto, chi, al contrario, sosteneva che la palla fosse passata poco sopra la testa del portiere. Alla fine, per uscire dall’impasse, si scendeva a un compromesso: si dava il rigore alla squadra che reclamava il gol e si andava avanti con la partita.
NOTA BIOGRAFICA
Gerardo Caputo è nato a Benevento, ma è vissuto a Napoli fino all’età di trentacinque anni. È stato docente di italiano presso le università di Tumbes e di Huacho, in Perù, e in due licei di Marsiglia. Fino al mese di agosto del 2025 ha insegnato francese a Benevento, dove ha anche fondato l’associazione culturale di volontariato “La Fabbrica degli Specchi”, con lo scopo di diffondere il teatro tra i giovani. Dal 1° settembre 2025 è lettore di italiano con nomina MAECI presso l’Università di Dakar, in Senegal. Ha all’attivo le seguenti opere teatrali: Le ragioni del nulla, La morte di Scardanelli, Il primo uomo, Il sogno di Gretel, L’ospite, Il delatore, Il sindacato dei mendicanti, premiate e rappresentate in varie città italiane. Ha anche pubblicato i romanzi: Ilfunambolo (Giraldi), La sensibilità del vero (Ciesse), Colpevoli sovrapposizioni (Dialoghi), Iltredicesimo piano (Montag), oltre ad alcuni lavori sugli scrittori francesi Albert Camus e Louis-Ferdinand Céline.
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