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Quando tua madre si chiama Alda Merini

Quando tua madre si chiama Alda Merini

La difficoltà di relazionarsi con una madre-gigante come Alda Merini, raccontata dalla primogenita Emanuela Carniti

Mercoledi, 10/02/2021 - Emanuela Carniti, Alda Merini, mia madre. Manni editore, 2019

Quando si ama un(a) artista, è inevitabile essere affascinati e incuriositi da tutto ciò che lo (la) riguarda. Quante volte ci siamo chiesti: chissà com’è la sua casa, chissà com’è il vero carattere, gli amici, i gusti. Per alcuni abbiamo schiacciato l’occhio nel buco della serratura, per scoprirne vizi, amori, brandelli di intimità. A volte siamo persino riusciti a conoscerli, spesso con effetti disastrosi.
Ma tutto questo è il campo visivo e fantasioso di noi lettori, che se ci innamoriamo di un’opera d’arte, vorremmo sapere tutto su chi l’ha creato, per capire forse quanto ci possa somigliare o quanto somigli alla sua opera. Alzi la mano chi non ha mai eroicamente affrontato file lunghissime fuori dai teatri per un autografo, una stretta di mano, un piccolissimo gesto che sancisce: io c’ero, l’ho visto/a, l’ho persino toccato/a.
Eppure, tutto questo alone di favolosa magia scompare, anzi si ribalta, quando l’artista lo abbiamo dentro casa, e magari è nostra madre. E il più delle volte il ribaltamento è assai rovinoso.
Molte scrittrici hanno raccontato la loro difficoltà di dividersi tra il ruolo di autrici e quello di madri. Alice Munro ad esempio non ha nascosto che spesso, mentre si trovava nel pieno della scrittura, cacciava in malo modo le figlie che chiedevano attenzione. E molto figli hanno raccontato, adulti, che tormento sia stato crescere accanto a narcisi, divi, talvolta folli, talvolta fragili.
Se poi tua madre si chiama Alda Merini la cosa si fa decisamente difficile. Una delle più grandi poetesse contemporanee, una donna che ha affascinato tutti, dal vissuto straordinario, Alda ha avuto quattro figlie, che Roberto Vecchioni, nella sua portentosa canzone a lei dedicata, definisce “colpi di vento”; in effetti, a parte la prima, Emanuela, queste figlie sono state sparpagliate e hanno vissuto poco o niente la madre. Ed è proprio Emanuela a farsi carico della testimonianza più difficile: squarciare con delicatezza quel velo di sacralità della poetessa e raccontarla come madre. E provare a non tremarne.
Non inizi nemmeno la lettura chi si aspetta un libro voyeuristico. Emanuela Carniti racconta sua madre in punta di piedi e di penna, talvolta sembra quasi che non ce la faccia e allora si rifugia nella ricostruzione delle vicende letterarie, dei lunghi rifiuti editoriali, poi del manicomio che rende la Merini un fenomeno interessante, e allora l’arrivo dei giornali, la tv, e poi gli editori che si rincorrono per pubblicarne anche solo una poesia improvvisata al telefono.
Chi ha vissuto l’esperienza di una madre a cui fare da madre, di una madre che ti ama ma che fa i capricci fino all’ultimo, avvertirà bene addosso come unghie lunghe nella carne il dolore amaro di questa figlia, che pure lo racconta con rispetto, a bassa voce. Una madre assente non solo per le sue cure psichiatriche, ma per la sua incapacità di gestire il quotidiano, di cui sua figlia fa parte, tanto da chiedere più volte il ricovero solo per fuggire dalla soffocante girandola di giorni in cui occorre badare alla casa, al marito, alla figlia. Poi, tra un ricovero e un altro, capitava che nascesse un’altra bambina.
Ed è proprio la delicatezza di questa primogenita a gridare forte, molto più forte che se l’avesse accusata, ferita, umiliata. Perché il suo è il racconto di un amore, sconclusionato e disordinato, ma pur sempre amore. E di una mancanza, una voragine mostruosa che resta, come a tutti coloro che hanno avuto una mamma assente e continuano ad attenderla, anche quando il suo ritorno rimane fuori da ogni logica.
Il libro si apre con alcuni versi dal titolo “Poetessa madre mia” di Emanuela, che dicono bene quest’attesa silenziosa e straziante:
“(…) Ti ho desiderata a lungo madre/come si brama il fiato per campare/come uno storpio anela ogni suo passo. / A lungo avrei voluto lambire il tuo sorriso/lasciare le mie impronte sul tuo cuore/addormentarmi dentro il tuo pensare. / Ma ti ho inventata madre/come fa un pazzo creatore/ tagliando in pezzi il nome/ sperando l’ovvietà di un risoluto rebus/ perché la donna che era in te/ io mai conobbi tutta intera. (…)”.
Eccola la conclusione più atroce: quando si ama tanto una madre che pur ti ama ma non è capace di mostrartelo, non resta che inventarsela, per consolarsi e raccontarsi un’altra versione dei giorni, dei baci, delle attese.
Una madre di cui prendrsi cura, da subito: “Fin da quando ero alle elementari papà mi diceva sempre: ‘Cura la mamma, guarda la mamma’, e io mi ritrovavo a fare da vigilante. Riteneva che lei non fosse in grado di gestirsi, e molte volte era vero”.
Da questo libro non si evince il destino delle altre tre sorelle, ma emerge chiaro il rapporto forte della Merini con la primogenita: la chiama, la pretende, la tratta male e poi bene, la tira a sé e poi la respinge. Ma la reclama, sempre, fino all’ultimo giorno. Emanuela Carniti definisce un rapporto “vampiresco” quello con la madre, che ne rivendicava come una bimba viziata ogni attenzione, ma che poi non riusciva ad aiutarla se questa le chiedeva attenzione a sua volta, perché tutto ciò che riusciva a risponderle era: “Non pereoccuparti, domani ti mando dei soldi”. Tuttavia non ne parla con rancore, ma anzi tenta di comprenderla: “Ma, più semplicemente, penso che la mamma non fosse fatta per vivere con altri, tantomeno in coppia”, fino a: “La mamma ha sempre vissuto male le ingerenze nella sua vita personale, questa è stata davvero una costante. Anche suo marito, e anche noi figlie, in fondo eravamo un’ingerenza”. Accettarlo, riconoscerlo e perdonarlo da parte di un figlio, è un estremo atto d’amore.
Emanuela ricostruisce la biografia di Alda, ne riporta numerose riflessioni, compresa la descrizione di sua nonna, bellissima e altera, o il racconto del matrimonio dei genitori, attraverso le parole della madre: “In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 23 anni, dove dormivo, scusate?” Ne smitizza, ma sempre con passo felpato, i racconti autobiografici, svelando l’inverosimiglianza di alcune narrazioni che facevano parte del raccontarsi a modo suo una storia che era andata altrimenti: “È una cosa che faceva spesso, come se avesse bisogno di dare una trasfigurazione immaginifica alla propria esistenza, per renderla più interessante, per affascinare chi la ascoltava”.
Non manca l’aspetto della civetteria della madre, o quel suo trasfigurarsi quando declamava in pubblico i suoi versi, come se arrivassero da un luogo davvero molto lontano che si portava dentro.
Ce la mostra intenta a scrivere sempre e ovunque, seduta in cucina, fumando, vaneggiando. Riporta alcuni passaggi dei diari dal manicomio, pensieri, sogni incredibili, riflessioni lucidissime: “Non comprendo ancora chiaramente ove mi condurranno tutte queste sofferenze: perché soffro tanto di un male chiuso e quasi inestricabile”.
Interessanti le testimonianze dei primi ricoveri: “Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio […] ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente (…)”. Che poi, come disse lo psichiatra Franco Fornari, citato dalla stessa Merini, “Il manicomio è come la rena del mare. Se entra nell’alveo delle conchiglie genera perle”.
Irrompe tra le pagine l’intreccio potente dell’erotico e del mistico che modella i versi della Merini, ed è come assistere alla nascita di una forza creativa che giunge da punti molto reconditi e lascia senza fiato. “Ove è nascosta la meravigliosa energia che unifica i nostri desideri e li lancia attraverso lo spazio sullo schermo invariato di un’immagine amata? (…) la vita esige la mia partecipazione, (…) Rompete ogni indugio miei sensi e affiorate al destino della volontà. La poesia è inutile se il ritmo del piacere non la esercita nel sangue di minuto in minuto… (…)”. E ancora “(…) gioia rappresa le mie labbra ormai/alzano incensi di silenzi al suono/voluminoso della tua figura”(…).
È come se raccontando la grandezza poetica della madre, Emanuela tentasse di colmare il vuoto d’amore che la madre le lasciava, quel vuoto d’amore che poi è il titolo di una delle sue sillogi di maggior successo. Ma nel contempo ne riconosce il dolore, raccontandolo con i versi della madre, come verità davanti alle quali ci si può solo arrendere: “Quando l’angoscia spande il cuo colore/dentro l’anima buia/come una pennellata di vendetta,/ sento il germoglio dell’antica fame/farsi timido e grigio/e morire la luce del domani”.
Numerosi gli stralci di interviste, tra tutti un passaggio è davvero incisivo: “Quello che è importante da dire è che le difficoltà psicologiche generano isolamento, e la solitudine genera la malattia mentale. La solitudine è scandalosa, orrenda (…) Molti si sono ammazzati perché sono stati lasciati così soli, così abbandonati; non servono tanto i farmaci, quanto la presenza, un vicino che ti chiede come stai”.
Emanuela Carniti cita e omaggia spesso Maria Corti, che è stata la più ferrea sostenitrice, promotrice e appassionata di Alda Merini, e spesso si avvale delle sue citazioni come fosse un braccio cui poggiarsi per farsi aiutare a raccontare la madre: le cadute, i crolli, i due matrimoni, il trasferimento a Taranto e poi il ritorno al suo nido sui Navigli, dove tutti la conoscevano e la accoglievano e dove lei dava asilo a personaggi decisamente singolari, in quella casa in miniatura gravida di oggetti di ogni tipo accatastati in ogni dove.
Irresistibili alcuni aspetti: “Un altro posto dove si recava spesso era la farmacia: era un’accanita consumatrice di medicine, che si prescriveva da sola, coi dosaggi che decideva lei”. Stralci di vita condotta in modo anarchico, cocciuto, a testa alta, che ti sembra di vederla, tutta fiera coi suoi orecchini, il rossetto, lo smalto, il cappello, e i soldi ben nascosti nel reggiseno, da distribuire secondo l’insindacabile parere di quel giorno.
Quando arrivano gli ultimi giorni in ospedale, il magone è inevitabile. Una grande donna bambina che si ribella alle cure, e poi la città intera che si mobilita per omaggiarla, e per istituire una casa-museo. Un’ondata di interesse fragoroso che travolge le figlie, la fila infinita alla camera ardente, la telefonata che annuncia i funerali di Stato. Emanuela rende bene il senso di spaesamento davanti a tutto questo: “Era la mia mamma, e anche una mamma complicata. (…) Lo sapevo, io, quanto era amata? Come avrei potuto disgiungere l’immagine di mia madre da quella di Alda Merini? In quel momento in cui avrei dovuto iniziare a fare i conti con la sua assenza, imparavo una nuova presenza. Poi l’abbiamo portata al Cimitero Monumentale, l’hanno tumulata nella cripta del Famedio, dove ci sono le celebrità, è sopra la tomba di Giorgio Gaber”. Impossibile non immaginarli insieme questi due personaggi, a chiacchierare della loro Milano, tra battute e ironie, tra versi e canzoni.
Il web pullula di fotografie di Alda Marini, e anche nel libro c’è una generosa appendice fotografica, con numerose immagini della poetessa a diverse età, e alcune pagine di diario. Eppure, la cosa interessante è che la fotografia scelta per la copertina, e concepita in un ottimo progetto grafico da Stefano Vittori, è poco chiara, un sorriso quasi nascosto, due occhi forse infastiditi dalla luce. Sfuggente. Inafferrabile. Come l’amore che lega queste due donne e che la figlia continua a rincorrere. Una figlia che, pur ammirando profondamente la libertà di sua madre, sembra frugare senza tregua tra i ricordi e le cose, per scovare, tra lo sciame di versi e passioni, le tracce di un amore sgangherato, ma tremendamente necessario.

Roberta Yasmine Catalano

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