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Udi, anteprima XVI congresso. “Noi. Sguardi di donne sul presente”

Udi, anteprima XVI congresso. “Noi. Sguardi di donne sul presente”

'Libertà e amore tra patriarcato in crisi e mercificazione consumistica', intervento in occasione dell'Anteprima XVI Congresso Udi (30 gennaio 2016)

Venerdi, 05/02/2016 - ANTEPRIMA XVI CONGRESSO UDI

“Noi. Sguardi di donne sul presente”

Roma, 30 gennaio 2016



LIBERTA’ E AMORE TRA PATRIARCATO IN CRISI E MERCIFICAZIONE CONSUMISTICA




Ho scelto di tornare a ragionare su libertà e amore collocandoli in questa nostra contemporaneità segnata da patriarcato in crisi da un lato e da mercificazione consumistica dall’altro. Cercherò, con alcune sintetiche annotazioni dato il poco tempo a disposizione, di nominare i cambiamenti avvenuti grazie a noi, ma anche gli slittamenti che essi hanno subito nel nuovo scenario mondiale.

Comincio dalla libertà. Nelle nostre pratiche discorsive abbiamo chiamato libertà femminile l’esito di quella rifondazione di sé in quanto soggetto finalmente al di fuori della svalutazione patriarcale. Avere un punto di vista autonomo sulla realtà, guardare e nominare il mondo a partire da sé e dall’ esperienza storica delle donne venute prima, è stato ciò che in tante abbiamo guadagnato dando senso politico alla relazione tra donne. Il concetto di libertà, che nell’uso corrente significa assenza di vincoli, lo abbiamo ridefinito nella consapevolezza della centralità che assumono le relazioni nella nostra vita: quindi una libertà all’interno dei legami e delle responsabilità e che ha in sé, chiarissimo, il concetto di limite (ricordo il ricco dibattito sul disastro di Cernobyl nella seconda metà degli anni ottanta). Abbiamo così messo al centro della politica in modo esplicito un soggetto sessuato, consapevole della propria parzialità, della dipendenza e responsabilità verso gli altri/e, a fronte di una finzione su cui si è costruito il maschile, cioè l’individuo neutro, universale e autosufficiente. In dissonanza con la scissione schizofrenica del soggetto operata dalla cultura maschile ci siamo inoltre riconosciute nella integrità inscindibile di corpo/mente/sentimenti. Mettere alla prova la nostra libertà nei rapporti con gli uomini è stato ineludibile e i costi sono stati pesanti sia nelle vite private che nello spazio pubblico, ma a un certo punto alcuni hanno cominciato a capire che il sistema patriarcale toglie anche a loro verità e libertà. Il patriarcato infatti è un complesso di regole, ingiunzioni e interdizioni deformanti la libera soggettività di donne e uomini, radicalizza le differenze, ridimensiona complessità e autenticità. Non dimentichiamo che per millenni ha costretto gli adolescenti a riti di iniziazione cruenti pur di allontanarli dai valori materni della tenerezza e della cura, per poterli meglio addestrare alla forza fisica, alla guerra e alla violenza come pratiche di valore superiore. Grazie a noi, alla nostra conquistata dignità e libertà di madri, figlie, sorelle, compagne è andato in crisi quel modello e la sua produzione simbolica. Abbiamo introdotto un disordine che è ancora parte costitutiva della realtà in cui viviamo. Oggi, ad esempio, ci capita di vedere, accanto a un persistente virilismo, giovani padri accudire la prole e, a volte, condividere la manutenzione degli spazi comuni; persino il dio degli eserciti nelle enunciazioni del papa sta diventando un dio materno, il dio della tenerezza, senza che questo metta però in discussione il potere monosessuato nella Chiesa e l’interdizione delle donne al sacro.

Nel nostro lungo percorso di liberazione ogni aspetto della vita è diventato per noi oggetto di riflessione, contestazione, sperimentazione. Abbiamo affermato con il termine autodeterminazione la libera gestione della nostra fertilità e la sovranità sul nostro corpo. Giuliana Dal Pozzo scriveva su Noi Donne negli anni cinquanta, quando i mezzi contraccettivi erano illegali e tante le nascite indesiderate, un articolo dal titolo “Quando li vogliamo, quanti ne vogliamo”; oggi -a parte i continui attacchi alla 194 e il depotenziamento dei consultori- il vero problema è poter diventare madri; nello stesso tempo appare pienamente legittima la volontà di non esserlo, in passato tabù impronunciabile. Nel convegno nazionale dell’Udi nel 1980 a Torino “Lavoro: ancora una cittadella maschile?” dicevamo “Vogliamo lavorare, ma vogliamo dire come”. In tante siamo entrate in questa cittadella per assicuraci autonomia economica e una possibile libertà, ma siamo riuscite a cambiarla? Il lavoro, quando c’è, è in genere totalizzante, basato proprio sulla finzione dell’individuo, donna o uomo che sia, autonomo e autosufficiente, senza responsabilità familiari e sociali. Un lavoro ridimensionato nei diritti che costringe troppi e troppe a nuove forme di schiavitù e/o ad una precarietà che investe il senso stesso dell’esistenza e ne riduce drasticamente l’esercizio della libertà.

Il fatto è che mentre noi donne mettevamo radicalmente in crisi le strutture del potere sessista proprio a partire dalla centralità delle relazioni, si andava via via affermando un modello di sviluppo incardinato su logiche di mercato, in un sistema neoliberista con al centro il profitto ad ogni costo. Potente strumento di induzione ai consumi, la pubblicità ha invaso ogni luogo della vita alimentando narcisismo, individualismo e una attitudine “usa e getta” che contamina i rapporti e mette a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta.

Ci troviamo sospint* fin dall’infanzia più verso l’avere e l’apparire che l’essere. Il denaro, con cui si pensa di poter comprare tutto, diventa strumento prioritario di realizzazione di sé, la competizione inevitabile, la solidarietà una pratica residuale. In questo contesto vengono paradossalmente percepite come segni di libertà alcune scelte basate proprio su una riproposizione della scissione schizofrenica del soggetto, il corpo oggetto, merce di scambio: l’adolescente che si prostituisce per accedere a beni di lusso e il cliente che cinicamente ne approfitta, il sesso a pagamento con donne vittime di tratta o, all’estero, con minorenni in stato di indigenza, l’acquisto di organi da viventi in difficoltà economiche, prendere in affitto un utero e via dicendo. Il ricorso, poi, di donne e uomini a degradanti manomissioni dell’integrità corporea per un ideale irraggiungibile di bellezza e giovinezza è una delle conferme di un adeguamento di entrambi i generi ad una plateale oggettivazione, altro che libertà!



Dobbiamo però considerare anche il fatto che siamo ormai di fronte ad appartenenze liquide, dove il bisogno di uscire da gabbie identitarie costruite sull’eterosessualità come norma, rende finalmente possibile una libera scelta nell’orientamento e appartenenza sessuale e scompagina il concetto di differenza di genere così come è stato a lungo concepito e poi da noi donne radicalmente ripensato. La ricerca scientifica e tecnologica ha aperto nuovi scenari che portano miglioramenti nella qualità della vita, ma anche nuove e preoccupanti dipendenze e pongono nuove domande. E’ possibile costringere il proprio corpo a cambiare sesso con interventi chirurgici e/o ormonali: ma fino a che punto e a quale prezzo? La procreazione medicalmente assistita o la gestazione per altre/i possono considerarsi scelte di libertà: ma per chi e con quali conseguenze per ciascuno dei soggetti coinvolti? Non mi sembra a questo proposito che ci sia la stessa determinazione a impegnarsi affinché l’adozione diventi una pratica più accessibile per tutt* o a combattere le cause che costringono a rimandare oltre ogni limite la procreazione. La verità è che resta debole, molto debole la dimensione politica e non c’è sufficiente consapevolezza su ciò che si perde nell’uso di certe libertà autocentrate, che poco tollerano ostacoli e impedimenti.

Una sorta di onnipotenza individualistica ha stravolto anche le pratiche politiche rendendo difficile l’esercizio della democrazia e la costruzione di un noi stabile; ha contaminato le nostre abitudini di vita ormai incentrate sulle tante insensatezze del vivere quotidiano.



Improprio parlare in questi casi di omologazione al maschile. Maschile e femminile sono figure di un simbolico che noi stesse abbiamo contribuito a decostruire sperimentando e facendo sperimentare nuove soggettività dove differenza e uguaglianza, uscendo dal dualismo sessuale patriarcale, sono approdate anche a zone neutre, il neutro di cui parlava tanti anni fa Luisa Passerini, non come nascondimento del genere femminile e del suo valore, ma luogo di massimo rischio e libertà di soggetti in mutamento. Oggi l’omologazione al maschile si intreccia e si confonde con l’adeguamento di donne e uomini ad un modello unico, subdolamente imposto.

La libertà ha dunque subito un vistoso slittamento semantico grazie al quale non solo è funzionale alle leggi di mercato, ma ne è elemento strutturale. Questo dobbiamo saperlo, se vogliamo preservare e magari ampliare quegli spazi di libertà così duramente conquistati affinché non vengano piegati a logiche che smentiscono le motivazioni profonde del nostro essere femministe. Nello stesso tempo è necessario attivare relazioni politiche con le tante forme di resistenza presenti nei territori in cui moltissime sono le donne, e provare ad uscire da una frammentazione senza interlocuzione per costruire pratiche politiche trasformative, capaci di tenere insieme solidarietà e reciprocità, cura per sé e cura per gli altri/e, amore e libertà.



Parlare di libertà, infatti, significa anche e soprattutto parlare d’amore, se vogliamo prendere le distanze da una loro impropria collocazione binaria e oppositiva che tuttora continua a resistere nelle pieghe dell’immaginario. Non esiste libertà senza amore, né amore senza libertà. L’elemento più radicalmente rivoluzionario del femminismo, a ben guardare, è l’aver collocato il concetto di libertà fin dentro i legami affettivi a cominciare dalla relazione primaria, quella con la madre.

Uscire dal patriarcato ha significato trovare una nostra misura dell’amore, contrastando un simbolico potente che ha definito l’amore femminile come oblatività, pesante cancellazione di sé e del proprio desiderio. La figura della madre oblativa rappresenta la radice più potente e tenace del patriarcato; senza di lei non ci sarebbero né padri padroni, né figli maschi predisposti a pretendere abnegazione e dedizione assoluta. Eppure questo “amore materno” è il modello più alto di amore che a quelle della mia generazione è stato consegnato, quello che ha dato origine e alimento al sogno d’amore, desiderio di un accoglimento totale e di una reciprocità assoluta. E’ stato necessario decostruire questo modello e le sue ricadute nelle dinamiche relazionali. Grazie a tante di noi e al lavoro controcorrente di psicologhe e psicoanaliste femministe, la madre a lungo figura muta della storia ha preso finalmente parola su di sé, è diventata soggetto parlante e ha raccontato un’altra storia. Oggi, a differenza che nel passato, anche la madre dà accesso alla cultura e alla cittadinanza; la separazione da lei, passaggio fondativo del soggetto e della costruzione dell’alterità, non è più nel segno della sua inferiorizzazione. Questo sta cambiando qualcosa nelle strutture profonde della psiche: quale impatto ha nella costruzione di un sentimento d’amore al di fuori delle gerarchie e della idealizzazione? Luce Irigaray nel 93 in Amo a te scriveva che non abbiamo un lessico e una sintassi appropriata all’intersoggettività, dove è indispensabile riconoscere e preservare lo spazio che ci separa per uscire da logiche di dominio. Ho l’impressione che poco riusciamo in questi nostri giorni così confusi e contradditori a trovare questo lessico e questa sintassi, a consentire questo spazio di reciproca libertà nei nostri legami affettivi, proprio ora che la famiglia e i modi della convivenza, anche per merito nostro, hanno assunto maggiori libertà e declinazioni.



Prima di concludere consentitemi ancora due veloci annotazioni.

La prima riguarda la libertà sessuale che è naturalmente valore da difendere, ma non possiamo non vedere i condizionamenti indotti da una cultura consumistica che sposta sul sesso il fulcro principale, se non l’unico, delle relazioni di coppia, impoverendo il potenziale di arricchimento e crescita insito nel sentimento d’amore quando esso è vissuto nella pienezza delle reciproche libere soggettività. La seconda riguarda la sempre più diffusa mobilità sociale che porta con sé molto più che nel passato l’esperienza dolorosa della distanza, una distanza che si tende a colmare attraverso la comunicazione virtuale col rischio di riproporre, intatte, le dinamiche del sogno d’amore (vedi l’ultimo film di Tornatore).

E’ così complicato parlare di amore ed è così difficile viverlo: troppi sono ancora gli ostacoli e tanti gli equivoci che permangono a causa della sottovalutazione dell’ambivalenza del desiderio e per la complessità in cui il sentimento d’amore è incastonato, tra paura, invidia, gelosia, odio, tenerezza, violenza, fragilità e potere, poiché l’amore assoluto non esiste in barba ai testi delle canzoni e a tanta letteratura. C’è un grande lavoro da fare dentro e fuori di noi per continuare a costruire una nuova cultura dell’alterità (globalizzazione-immigrazione), della libertà, dell’amore.



Credo fermamente che dobbiamo tornare con maggiore impegno (autocoscienza?) ad occuparci di ciò che sta accadendo nelle strutture più profonde del nostro scenario interiore, quello che erroneamente viene chiamato pre-politica, perché è lì che in buona parte si costruisce il senso dello stare al mondo e l’idea stessa di politica, di democrazia, di pace. Il desiderio di libertà e quello d’amore ne sono componenti fondamentali.



Rosanna Marcodoppido

Intervento all'anteprima Congresso Udi (Roma, 30 gennaio 2016)

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